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Operare per una riscoperta della “coscienza” dei luoghi

Aggiornamento: 12 giu 2020

C’è un bellissimo libro di Giacomo Becattini – che gli studiosi di economia conoscono molto bene perché è colui che per primo ha studiato e codificato i distretti industriali italiani – che si intitola La coscienza dei luoghi (2015). Il libro scritto attraverso un dialogo con l’urbanista Alberto Magnaghi, si muove all’interno di una sfida tra due tendenze culturali che “si corrispondono specularmente e si intrecciano dialetticamente” (p. 220): quella del laissez-faire, rappresentata dal capitalismo oligopolistico che trova fondamento nella logica della crescita incontrollata, sfociata nella globalizzazione dei processi produttivi e nell’urbanizzazione sfrenata, nell’abbandono delle campagne, nell’abominio delle megalopoli; l’altra rappresentata dalla tendenza, oserei dire resistenziale, a dare valore alla vita locale, radicata nei luoghi, che non accetta l’idea della vita come mera produzione e consumo di merci, ma che cerca di non farsi fagocitare da questi processi di alienazione e omologazione.

La proposta dei due autori è quella di costruire “aggregati socio-economici territoriali”, restituendo ai luoghi una “coscienza di luogo, coesione sociale e solidarietà fra gli uomini”. Si tratta di un processo costruttivo, secondo gli autori, che deve riabilitare alla “corresponsabilità degli abitanti dei luoghi, facendo prevalere il principio territoriale su quello funzionale” (p. 221).

In questo solco, precisano che di fronte al fallimento del mercato “è il caso di tentare un’altra via, la via della responsabilità esplicita di ogni cittadino per il progresso sociale e il benessere della sua comunità, aperta a relazioni solidali con altre comunità” (p. 221).

La loro visione è di “un mondo di sistemi locali relativamente piccoli, integrati in strutture amministrative intermedie, dediti certo, ognuno, a produzione di beni d’uso e di scambio in concorrenza con quelle degli altri, ma improntati, fondamentalmente, all’emulazione delle istituzioni: il miglior ecomuseo, il miglior asilo nido, il miglior sistema di trasporto pubblico, la migliore urbanità, il miglior paesaggio, la migliore ospitalità e così via” (p. 221).

La conclusione è che “se in ogni luogo si producono beni che solo in quel luogo – per il suo paesaggio, la sua cultura, le sue arti, la sua identità – si possono produrre, garantendo l’autoriproduzione della vita della comunità, allora lo scambio di merci fra i sistemi locali del mondo tenderà a configurarsi … come competizione cooperativa, nel rispetto delle identità, delle peculiarità e delle differenze, verso l’elevamento reciproco della qualità del benessere e la felicità pubblica” (p. 222).

In un momento storico in cui molte delle certezze con cui si è vissuto sino a qualche decennio fa sono venute meno, in cui ambiente, paesaggio e territorio sono stati sottoposti a fenomeni di progressivo degrado per l’interesse di pochi, in cui la vita di molti esseri viventi è compromessa o tende a essere fortemente compromessa (si pensi alla moria di api o alla scomparsa di altre specie), in cui molta parte della popolazione mondiale vive in condizioni di indigenza, mentre altri sottostanno al calpestio, spesso violento, di molti diritti e molti di noi assistono, spesso impotenti, all’esacerbazione di conflitti di ogni tipo (di genere, di generazione, di classe, ecc.) ecco che la proposta di Becattini e Magnaghi rappresenta una boccata d’aria fresca, un cambio di paradigma, un mettere finalmente in discussione, senza vincoli ideologici, pilastri ritenuti ancora oggi da molti come le basi di una società moderna.

Ciò che oggi non ci piace, infatti, è frutto di alcuni mantra come quelli della crescita, del profitto, del vincere a tutti i costi, dell’acquisire un vantaggio, dell'innovazione a tutti i costi anche se si sà che il 60% di queste è destinata a fallire e, di conseguenza, a generare lo spreco del 60% delle risorse annualmente investite in ambito mondiale.


Come ben evidenzia un manager d’impresa con una lunghissima esperienza in ambito nazionale e internazionale, abbiamo bisogno di un nuovo linguaggio anche nel modo di fare impresa, tornando ad assumere come riferimento quegli imprenditori che hanno costruito le loro fortune su un vocabolario ben diverso: si pensi a Adriano Olivetti, a Pietro Barilla, a Michele Ferrero, per i quali i valori di riferimento erano quelli della comunità, radicata in un contesto territoriale definito, in cui l’impresa più che essere caratterizzata da responsabilità sociale era definibile come una comunità sociale con responsabilità economica.

Questo significa che non è nella natura dell’impresa distruggere l’ambiente, inquinare, maltrattare i propri dipendenti, considerare il lavoro solo strumentale al profitto ma è invece nella natura e nelle propensioni di chi governa queste entità la chiave di volta per cambiare il contesto e renderlo più confortevole, più equo, più rispettoso delle identità, individuali, collettive e territoriali.

Ecco che allora c’è spazio e ci sono risorse per attivare processi virtuosi, come quello di Brunello Cucinelli, imprenditore del cashemere, quando decise non già di spostare la sede della propria azienda da un centro abitato a un altro, ma di cercare “una casa per i suoi sogni”. Fu così che scelse di trasferirsi in un borgo dell’Umbria, a metà strada tra Perugia e il Lago Trasimeno, lo restaurò (https://nypost.com/2014/12/04/brunello-cucinelli-restores-italian-village-to-build-cozy-cashmeres/) facendolo diventare un centro di “umanità”.


Ecco, quando penso ai luoghi della terra in cui sono nato, alle 377 comunità e al lavoro che si potrebbe fare per restituire umanità a paesi travolti dalla moda della modernità a tutti i costi che ha cancellato tante identità, penso a questo esempio. Qualcuno potrebbe osservare che non abbiamo al momento personaggi come Brunello Cucinelli ma, premesso che non ne sarei così sicuro, ciò che conta è costruire un contesto umano in cui possano prevalere valori come la prosperità per tutti, come il progresso, come la creazione e la co-creazione di valore, come la reciprocità dei diritti e non quelli della competizione esasperata, della vincita, della sopraffazione, del profitto.

Concludo citando un altro illustre economista, Federico Caffè, al quale è attribuita la seguente frase che faccio mia La fiducia che le idee finiscono per prevalere sugli interessi costituiti non può essere abbandonata da chi ne abbia fatto il fondamento della propria visione della vita.

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