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L’antifragilità dei piccoli paesi: una strategia per il futuro tra qualità della vita e sicurezza sistemica


Differenze concettuali
Differenze concettuali

1. Premessa storica: l’Europa del secondo dopoguerra e lo spopolamento rurale

Dopo la Seconda guerra mondiale, i paesi europei hanno intrapreso un processo di ricostruzione economica che ha visto nell’industrializzazione e nell’inurbamento i suoi assi portanti. Il piano Marshall, gli accordi di Bretton Woods (1944) e l’inizio della liberalizzazione degli scambi con il GATT (1947) hanno contribuito a creare un ordine economico basato su produzione di massa, crescita del PIL e urbanizzazione accelerata. Il settore primario ha subito un declino strutturale in favore dell’industria e, più tardi, dei servizi[1] (cfr. Esping-Andersen, 1990; OECD, 2001).


In questo contesto, le aree rurali hanno subito un lento ma progressivo spopolamento, vissuto non solo come fenomeno demografico ma come perdita di valore sociale, politico ed economico. La centralità della città – cuore produttivo e simbolico della modernità – ha dominato il Novecento, sostenuta da un paradigma di efficienza che ha marginalizzato territori considerati "periferici".


2. Crisi dei modelli urbani: gentrificazione, costi e insostenibilità

Negli ultimi vent’anni, le grandi città sono state oggetto di processi di gentrificazione che, se da un lato hanno riqualificato quartieri degradati, dall’altro hanno espulso fasce di popolazione meno abbienti, aumentando le disuguaglianze e generando un'esclusione socio-spaziale. L’aumento dei costi della vita – soprattutto degli alloggi – ha reso la vita urbana sempre meno sostenibile per molti, specialmente per le giovani generazioni e le famiglie[2] (Lees, Slater & Wyly, 2008).


Parallelamente, la crisi finanziaria del 2008, la pandemia da COVID-19 e le tensioni geopolitiche degli ultimi anni (compresa la guerra in Ucraina e il rischio crescente di un conflitto globale) hanno messo in discussione la presunta invulnerabilità delle aree urbane, mostrando quanto queste possano essere fragili rispetto a shock sistemici.



3. La pandemia come punto di svolta: tecnologie e nuove geografie del lavoro

Il 2020 ha segnato un punto di svolta. Il massiccio ricorso al lavoro da remoto ha reso evidente che una parte crescente delle attività economiche può essere svolta a distanza, aprendo possibilità inedite per la riorganizzazione della vita personale e professionale. Lontano dalle metropoli, molte persone hanno riscoperto i vantaggi dei piccoli paesi: natura, relazioni più autentiche, costi ridotti, minore stress.


In tutto il mondo, numerosi progetti pilota, incentivi fiscali e politiche pubbliche stanno promuovendo il reinsediamento nelle aree interne o rurali.[3] In Italia, ad esempio, i programmi "Smart Villages", i "Borghi del futuro" e i bandi per l'acquisto simbolico di case a 1 euro stanno riscuotendo un certo successo, ancorchè personalmente, non condivida la scelta di vendere le case a 1 euro, così come occorre contrastare il fenomeno dell’aumento di prezzi indiscriminati che, soprattutto nelle città, deriva dall’effetto della gentrificazione e dalla conseguente turistificazione dei centri storici.


4. Scelte antifragili: vivere nei piccoli paesi come risposta strategica

Il concetto di antifragilità, elaborato da Nassim Nicholas Taleb (2012)[4], descrive sistemi che non solo resistono agli shock, ma migliorano grazie ad essi. In questo senso, la scelta di vivere in piccoli paesi può essere letta come strategia antifragile: non si tratta solo di sopravvivere alla crisi delle città, ma di trarne vantaggio attraverso un nuovo paradigma di vita.


L’abbandono volontario del modello urbano in favore di un’esistenza più sostenibile è una forma di consapevolezza, spesso legata a valori come la sobrietà, l’autosufficienza, la prossimità e la qualità delle relazioni. Non è un ritorno nostalgico al passato, ma un salto evolutivo in risposta alle disfunzioni del presente.[5]


Il libro di Nassim Nicholas Taleb
Il libro di Nassim Nicholas Taleb

Ciò però richiede un cambio di prospettiva culturale che non può fare a meno di persone sempre più istruite, colte, orientate al miglioramento continuo, cosa che, purtroppo, in molte parti dell'Italia, soprattutto meridionale e insulare, fatica ad affermarsi, a motivo di una "diseducazione" basata sulla lamentela continua, sulla richiesta del favore e delle delega ad altri della soluzione dei propri problemi personali, con un livello di deresponsabilizzazione elevatissima e, in non pochi casi, come scarsa propensione a fare impresa.


5. Sicurezza e resilienza territoriale: città come vulnerabilità

In caso di crisi sistemiche, le città sono le aree più esposte: infrastrutture complesse, dipendenza energetica e logistica, alta densità di popolazione. Le campagne, al contrario, offrono possibilità di autonomia, isolamento protettivo e gestione diretta delle risorse. In una prospettiva realistica – non catastrofista – è logico pensare che la redistribuzione della popolazione possa diventare una leva di sicurezza nazionale.


Durante la Seconda guerra mondiale, lo sfollamento fu forzato. Oggi potrebbe essere volontario e strategico.


6. Redistribuire per rigenerare: una sostenibilità a tre dimensioni

La ripopolazione dei piccoli paesi si configura come una strategia di sostenibilità:

  • Sociale, perché ricuce legami comunitari e combatte l’isolamento;

  • Ambientale, perché riduce l’impatto della concentrazione urbana;

  • Economica, perché rivitalizza territori marginali con nuove attività (turismo lento, agricoltura di qualità, artigianato, servizi digitali).[6]


Si tratta di una prospettiva coerente con le Agende globali (Agenda 2030, Green Deal Europeo) e con un’idea di sviluppo equo e policentrico.


Anche in questo caso, tuttavia, occorre un cambio di mentalità: spesso in tanti paesi si vedono gli immigrati (intendendo con questa espressione chiunque non sia espressione di quello specifico paese) come "stranieri", persone che quindi non sono abilitate a entrare nei processi decisionali e sociali nonostante il loro desiderio di coinvolgersi e integrarsi. Penso a tanti comuni della Sardegna dove chi non è del paese specifico è considerato "un istranzu" (uno straniero) e, di conseguenza, deve stare al suo posto.


Eppure, in moltissimi casi, queste contaminazioni fanno bene, aprono la mente, consentono di acquisire punti di vista diversi e, per ciò stesso, rappresentano elementi di "agitazione" culturale in grado di movimentare la "palude" dell'immobilismo culturale, sociale, ecc.


7. Nomadismo digitale: la riscoperta dei piccoli comuni come scelta antifragile

Negli ultimi anni, il fenomeno del nomadismo digitale ha guadagnato crescente attenzione, configurandosi come una risposta innovativa alle sfide contemporanee legate al lavoro, alla qualità della vita e alla sostenibilità territoriale. In particolare, le nuove generazioni mostrano una sensibilità accentuata verso valori quali l'autonomia, la flessibilità e il benessere, orientandosi verso stili di vita che privilegiano la connessione con la natura, la comunità e la cultura locale.​


Secondo il Terzo Rapporto sul Nomadismo Digitale in Italia, realizzato dall'Associazione Italiana Nomadi Digitali ETS con il contributo di WINDTRE, i nomadi digitali possono contribuire significativamente al rilancio e allo sviluppo economico e sociale del Paese, valorizzando i territori, soprattutto nei piccoli centri e nelle aree interne. La ricerca si concentra sulle opportunità, ma anche sugli impatti economici, sociali e ambientali che il lavoro da remoto e il nomadismo digitale generano nelle comunità locali.[7] 


Inoltre, il rapporto evidenzia come il lavoro da remoto stia generando una rivoluzione nella stanzialità umana, offrendo l'opportunità di attrarre lavoratori da remoto, professionisti e talenti nei piccoli centri e nelle aree interne del Paese. Questo processo, se gestito correttamente, può generare un impatto positivo nelle comunità locali, contribuendo attivamente a ridurre il divario economico, sociale e territoriale in Italia.[8] 


Il terzo rapporto dell'Associazione Nomadi Digitali
Il terzo rapporto dell'Associazione Nomadi Digitali

Questa tendenza si inserisce perfettamente nel concetto di antifragilità applicato ai piccoli paesi: comunità che, lungi dall'essere semplicemente resilienti, traggono vantaggio dalle trasformazioni in atto, reinventandosi come luoghi attrattivi per una nuova generazione di abitanti. In questo contesto, il nomadismo digitale non rappresenta solo una modalità lavorativa, ma un vero e proprio movimento culturale che promuove un nuovo equilibrio tra vita personale, lavoro e comunità.​

 

Conclusioni

I piccoli paesi non sono solo luoghi del passato, ma laboratori del futuro. Essi rappresentano un'opzione antifragile in un mondo che cerca nuovi equilibri tra sicurezza, sostenibilità e qualità della vita. Non si tratta di tornare indietro, ma di ripensare in avanti.

Ripopolare, dunque, non solo per ragioni romantiche o identitarie, ma come vera strategia di riequilibrio strutturale. Riconnettere persone e territori può diventare un atto politico e sistemico: un progetto di civiltà che va oltre l’emergenza, immaginando un futuro policentrico, più equo, più umano.


[1] Esping-Andersen, G. (1990). The three worlds of welfare capitalism. Princeton University Press.

[2] Lees, L., Slater, T., & Wyly, E. K. (Eds.). (2010). The gentrification reader (Vol. 1). London: Routledge.

[3] Dax, T., & Fischer, M. (2018). An alternative policy approach to rural development in regions facing population decline. European Planning Studies26(2), 297-315.

[4] Taleb, N. N. (2012). Antifragile: how to live in a world we don't understand (Vol. 3). London: Allen Lane.

[5] Woods, M. (2010). Rural. Routledge.

[6] Moretti, E. (2013). La nuova geografia del lavoro. Edizioni Mondadori.

[7] Cfr. Associazione Italiana Nomadi Digitali (2023). Terzo Rapporto sul Nomadismo Digitale in Italiahttps://www.nomadidigitali.it/report-2023

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