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Che Sardegna vogliamo diventare?

Riflessioni per un’isola che sta già costruendo il proprio futuro


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Ci sono momenti in cui un territorio deve avere il coraggio di fermarsi e domandarsi chi vuole essere. La Sardegna, oggi, è in uno di quei momenti.


Ci muoviamo spesso dentro dibattiti frammentati: tariffe aeree, continuità territoriale, stagioni turistiche incerte, paesi che perdono abitanti, giovani che partono, sportelli postali che chiudono, presidi sanitari che mancano, inadeguatezza della rete stradale e ferroviaria, desertificazione crescente, restrizioni idriche, servitù militari eccessive, ecc.. Ogni questione sembra un mondo a sé, scollegato dalle altre. Ma in realtà, tutte queste discussioni rimandano a una domanda più grande, semplice e radicale, la più trascurata e al tempo stesso la più urgente: Che Sardegna vogliamo diventare?


Non la Sardegna di domani mattina, o della prossima estate, o del prossimo bando sui trasporti. La Sardegna del 2035, del 2040. La Sardegna dei nostri figli e dei nostri studenti. La Sardegna che, a dispetto delle polemiche sui social e sui mass media, sta maturando, lentamente e spesso in silenzio, sotto la superficie delle polemiche quotidiane.


Per rispondere a questa domanda serve prima di tutto una visione. Non una promessa vaga o un esercizio di fantasia, ma un’idea chiara — anche provvisoria, anche imperfetta — di quale forma di vita collettiva vogliamo costruire.


ll punto, infatti, non è, giusto per fare un esempio, “quanti voli abbiamo”o “quante navi”: il punto è per quale modello di Sardegna quei voli o quelle navi dovrebbero servire. La mobilità, come l’economia, come il turismo, come l’istruzione, sono una conseguenza della visione, non la loro causa.


E allora da dove partire?


Una bussola possibile

Un approccio razionale dovrebbe partire da alcuni principi/valori che possono fungere da bussola.


Il primo è la sostenibilità, intesa in tutte le sue dimensioni: ambientale, certo, ma anche economica, sociale, demografica e culturale. Una società sostenibile è una società che si rigenera, che tiene in vita i paesi, che usa le risorse con intelligenza, che offre servizi equi, che preserva identità senza trasformarle in folklore.


E’ sostenibile, per esempio, la scelta di quell’impresa dell’ospitalità che decide di limitare il numero dei propri clienti perché se li facesse crescere dovrebbe modificare il proprio modello di business e snaturarsi rispetto a ciò che è, per tutelare per esempio la stessa comunità di cui fa parte, perché percepisce che in quel contesto, piccolo, troppe persone in più rischierebbero di creare uno squilibrio e lui/lei stesso/a non riuscirebbe a fare quello che ora fa nel modo con cui lo fa?


Il secondo principio è la responsabilità. Un territorio che delega tutto all’esterno, che attende segnali da altrove, che si sente perennemente vittima di decisioni prese da altri, è un territorio destinato a restare marginale.


La responsabilità non è un peso: è la condizione della libertà di scegliere la propria traiettoria. È evidente che in un contesto che non propone, che non progetta, che ha come unica idea quella in base alla quale si chiede ad altri di cambiare pelle, magari per volontà che cadono dall’alto, non può costruire un proprio percorso di sviluppo.


Il terzo principio — probabilmente il più decisivo — è l’istruzione. Non si costruisce un futuro nuovo con competenze vecchie. Non si genera innovazione senza capitale umano. Non si crea un’economia solida senza una popolazione capace di leggere il mondo, di adattarsi, di progettare. La qualità dell’istruzione è la base dello sviluppo. È la vera infrastruttura che manca: più della ferrovia, più dei porti, più dei voli. Se hai persone istruite è più facile aprirsi al mondo, essere propositivi, evitare di pregare ogni santo giorno Santu Murrungiu o rivolgersi a Nostra Signora del Lamento.


Una persona istruita non ha bisogno di elemosinare un posto di lavoro ai feudatari dell’epoca moderna (molti dei politici a vari livelli gli somigliano moltissimo), una persona istruita sceglie. E quando mi riferisco a una persona istruita penso non già a un titolo di studio in quanto tale ma al percorso di miglioramento continuo dell’individuo che oggi non può prescindere da una laurea, da un master o da un dottorato di ricerca. Piaccia o no, lo sviluppo passa da questo percorso evolutivo.


Fin qui le premesse. Ma la Sardegna si sta muovendo? O siamo fermi a discutere?


Eppure qualcosa (e pure di più) si muove

In realtà, non siamo fermi affatto. C’è una Sardegna — fatta di persone, imprese, ricercatori, amministratori, giovani, piccoli gruppi e reti spontanee — che sta già costruendo il futuro, senza proclami, senza attendere miracoli, senza cercare scorciatoie, senza cercare "amighixeddus". È un arcipelago di iniziative che nasce nelle campagne, nei paesi dell’interno, nei coworking dei centri urbani, nelle scuole, nelle università, nei progetti culturali, nei percorsi di innovazione sociale. Sono germogli piccoli, certo, ma vivi. E meritano di essere messi in rete, accompagnati, potenziati. Non faccio nomi solo perché non li conosco tutti e non voglio fare torto ad alcuno.


È qui, però, che la domanda iniziale assume un significato concreto. Perché l’isola del futuro non nascerà da un grande piano strategico calato dall’alto, ma dalla capacità di unire ciò che oggi cresce in modo disperso. Serve una visione collettiva che dia senso a ciò che già esiste, che riconosca i segnali deboli, che trasformi l’energia diffusa in progetto.


E la mobilità?

La mobilità è certamente un problema, ma è prima di tutto un indicatore. Indica la capacità (o l’incapacità) di un territorio di offrire opportunità, di trattenere giovani, di connettersi col mondo. Però, come dicevo, la mobilità non si discute in astratto: dipende dal modello di Sardegna che vogliamo. Una Sardegna che vive di stagioni brevi e di servizi fragili avrà sempre bisogno di rincorrere voli economici e sussidi d’emergenza. Una Sardegna che punta su qualità, permanenze lunghe, lavoro diffuso, ricerca, filiere locali, avrà bisogno di collegamenti diversi: più stabili, più equi, più puliti, più integrati.


Gli irriducibili devoti delle lamentele senza proposte

E poi c’è l’obiezione, comprensibile e diffusa: “Io vivo oggi. Non mi importa del futuro: ho bisogno di viaggiare ora, di trovare biglietti accessibili, di muovermi senza ostacoli”. È una voce che di certo merita rispetto. Ma proprio per chi vive oggi, il futuro è essenziale. Perché senza una visione, il presente diventa ogni anno più costoso, più difficile, più diseguale. Pensare al futuro non è un lusso per idealisti: è la migliore forma di tutela per chi ha bisogno ora, immediatamente, di servizi dignitosi.


Per questo la domanda conclusiva è inevitabile:

La Sardegna vuole essere periferia o laboratorio mediterraneo?


L’Europa cerca territori dove sperimentare nuovi modelli di mobilità, agricoltura, energia, turismo, welfare, governance. La Sardegna ha tutte le caratteristiche per candidarsi. Non perché sia speciale, ma perché è sufficientemente complessa e sufficientemente isolata da rendere possibile la sperimentazione. Se scegliamo di diventarlo, possiamo costruire una visione che tenga insieme sostenibilità, responsabilità, istruzione, innovazione, identità, comunità. Se non lo facciamo, resteremo ostaggi degli stessi problemi che da decenni ci tengono fermi.


Il futuro, dunque, non è una promessa: è un compito. E il compito comincia ponendo le domande giuste.


Che Sardegna vogliamo diventare?

La risposta non è immediata ma va cercata ora . Ma senza quella domanda, non ci sarà nessuna risposta possibile.

1 commento


Condivido in toto e aggiungo, che grazie a svariati piccoli attori (spesso inosservati dalle istituzioni) la Sardegna Laboratorio a cielo aperto sta succedendo. Una visione già esiste, abbiamo bisogno di esplicitarla sempre più e renderla condivisa. Urge poi la necessità di mettere l'istruzione al centro di OGNI politica di sviluppo. Non un comune, non una piccola frazione, può permettersi di negare spazi e aule studio a giovani e studenti; spazi per le idee e per i sogni, collegati col mondo e con gli atenei. Bisogna quindi fare un passo indietro sulla centralizzazione delle conoscenze, a discapito dell' "efficienza" e dei bilanci a breve termine, affinché la conoscenza arrivi sul territorio. Allora produrremo e venderemo intelletto, conoscenza e idee in tutto…

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