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Difesa europea e guerra: un’equazione sbagliata

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Nel dibattito pubblico degli ultimi mesi si è affermata con sorprendente facilità un’equazione tanto semplice quanto fuorviante: difesa europea = volontà di guerra. Si tratta di un’equazione che circola con una faciloneria disarmante anche tra persone istruite e politicamente impegnate, segno che non siamo di fronte a un fraintendimento occasionale, ma a un frame ideologico che tende a imporsi come atto di fede.

Il problema è che questa equivalenza non regge né sul piano logico, né su quello politico, né — soprattutto — su quello storico.


Difesa e guerra non coincidono

La difesa non è la guerra. Questa distinzione non è un’opinione, ma un presupposto consolidato tanto nella dottrina strategica quanto nel diritto internazionale.

Nelle riflessioni contemporanee sulla sicurezza, la deterrenza è concepita come strumento di prevenzione del conflitto, non come sua anticipazione: l’obiettivo non è l’uso della forza, ma la sua non-utilizzabilità, attraverso la credibilità della capacità difensiva. È una distinzione che attraversa la riflessione strategica occidentale del secondo dopoguerra ed è assunta esplicitamente anche nei documenti NATO e nelle più recenti strategie europee in materia di sicurezza.

Sul piano teorico, questa separazione tra difesa e guerra affonda le radici in una tradizione ben più ampia. Già in Kant, nel Progetto per una pace perpetua, la pace non è intesa come semplice assenza di conflitto, ma come esito di una costruzione giuridica e istituzionale capace di limitare l’arbitrio degli Stati. In modo diverso ma convergente, come mostra Kelsen, il diritto internazionale non sopprime il conflitto, ma lo incardina entro regole che ne limitano l’arbitrarietà, distinguendo tra uso legittimo e illegittimo della forza.

Attribuire automaticamente a chi parla di difesa una “volontà di guerra” significa dunque confondere mezzi e fini, scelte preventive e intenzioni aggressive. È una scorciatoia argomentativa che elude il nodo centrale: la differenza tra l’uso della forza come strumento di aggressione e la sua organizzazione come limite all’arbitrio, individuale o statale. Non è una posizione politica argomentata, ma una fallacia logica che appiattisce piani concettuali distinti.

Un secondo errore, altrettanto frequente, consiste nel trasformare l’esistenza di interessi economici in una prova automatica di intenzioni belliche. Attorno alla difesa esistono industrie, come attorno alla sanità, all’energia o al digitale. Ma dedurne che l’obiettivo politico sia la guerra significa sostituire l’analisi istituzionale con il sospetto generalizzato, evitando deliberatamente il confronto sui meccanismi decisionali, sui livelli di controllo democratico e sulle finalità politiche effettivamente perseguite.

Questo chiarimento concettuale non è solo utile per leggere il presente. Diventa decisivo se si guarda alle origini stesse dell’integrazione europea. È infatti sul terreno della guerra — e della necessità di impedirne il ritorno — che il progetto europeo prende forma, non come negazione del problema della sicurezza, ma come tentativo di governarlo attraverso istituzioni comuni, sottraendolo alla logica esclusiva della sovranità statale.


L’integrazione europea nasce contro la guerra

Il punto più problematico di questo frame è la rimozione selettiva della storia dell’integrazione europea, spesso piegata a letture strumentali del presente. L’Europa non nasce come progetto tecnocratico né, tantomeno, come costruzione orientata alla guerra, ma come risposta politica a due conflitti mondiali che avevano devastato il continente e messo drammaticamente in discussione la capacità degli Stati nazionali di garantire pace e sicurezza.

La Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (1951) rappresenta, in questo senso, un passaggio decisivo: sottraendo agli Stati il controllo esclusivo delle risorse strategiche necessarie alla produzione bellica, essa rende il conflitto materialmente più difficile, non attraverso proclami pacifisti, ma mediante una scelta istituzionale precisa. È un esempio emblematico di come l’integrazione europea nasca non dalla negazione del problema della guerra, ma dal tentativo di governarlo strutturalmente per impedirla.

Non sorprende, allora, che queste riflessioni non siano rimaste confinate sul piano teorico. Già nei primi anni Cinquanta, il problema della difesa venne posto in termini esplicitamente politici. Nel Manifesto di Ventotene e negli scritti successivi di Altiero Spinelli (Spinelli & Rossi, 1941; Spinelli, L’Europa non cade dal cielo, 1972), la pace non è mai concepita come semplice auspicio morale, ma come esito di un assetto istituzionale federale capace di superare la frammentazione della sovranità statale. In questa prospettiva, la guerra non è una deviazione accidentale, ma un rischio strutturale insito nello Stato nazionale sovrano lasciato a se stesso.

Questo richiamo storico è tanto più necessario oggi, di fronte a narrazioni che descrivono l’Unione Europea come un soggetto animato da una presunta “volontà di guerra”, in particolare nei confronti della Russia. Tali letture rovesciano la sequenza dei fatti e introducono una falsa simmetria: la guerra in Europa non nasce da una decisione dell’Unione, ma dall’aggressione militare di uno Stato sovrano a un altro. Il sostegno europeo all’Ucraina, sul piano politico ed economico, si colloca all’interno di questa asimmetria e non può essere interpretato come prova di una vocazione bellicista dell’Unione senza cancellare il contesto in cui tali decisioni maturano.

Richiamare le origini dell’integrazione europea non significa dunque indulgere in una retorica autoassolutoria, ma ricordare che l’Europa nasce come progetto di contenimento della guerra attraverso le istituzioni, non come attore neutrale di fronte all’uso della forza. Confondere la difesa dell’ordine internazionale con la volontà di conflitto significa, ancora una volta, rimuovere la distinzione fondamentale tra aggressione e difesa, tra chi la guerra la subisce e chi la inizia.


Federalismo e difesa: il caso della CED

Proprio per questo, già nei primi anni Cinquanta, il tema della difesa non fu affatto rimosso. Il Movimento Federalista Europeo sostenne la proposta della Comunità Europea di Difesa (CED), firmata nel 1952 da sei Paesi europei. L’obiettivo era superare le armate nazionali attraverso una struttura militare sovranazionale, soggetta a controllo politico comune.

La letteratura storica è chiara: la CED non nasceva come progetto bellicista, ma come tentativo di impedire il ritorno delle guerre intra-europee (Fursdon, 1980; Dinan, 2014). Il suo fallimento nel 1954, dovuto in larga parte al voto contrario del Parlamento francese, segnala non un eccesso di pacifismo, ma la resistenza degli Stati a rinunciare a una quota di sovranità nazionale sulla difesa.

Su questo punto è particolarmente lucido il pensiero di Mario Albertini, storico presidente del MFE. Nei suoi scritti sul federalismo (Albertini, Il federalismo, 1963; Nazionalismo e federalismo, 1979), Albertini insiste sul fatto che senza un potere politico europeo effettivo — comprensivo anche della difesa — l’Europa resta strutturalmente incompiuta e dipendente da decisioni prese altrove. L’assenza di una difesa comune non elimina in assoluto il problema della guerra, soprattutto se intentata da altri, ma elimina la capacità di decidere sulla pace, cosa che purtroppo stiamo sperimentando proprio in questi anni.


Il contributo di Antoni Simon Mossa

Questo nodo — l’incompiutezza politica dell’Europa — non attraversa solo il pensiero federalista “continentale”, ma riemerge anche in riflessioni maturate in contesti periferici e apparentemente marginali, come la Sardegna. Antoni Simon Mossa, intellettuale, sardista e federalista, sviluppò una critica severa tanto allo Stato nazionale centralista quanto a un’Europa ridotta a puro spazio economico. Nei suoi Scritti politici (1973) e nelle ricostruzioni di Manlio Brigaglia (Antoni Simon Mossa. L’utopia possibile, 1998), emerge con chiarezza la preoccupazione per un’integrazione priva di reale dimensione politica.

Simon Mossa vedeva il rischio di un’Europa incapace di garantire pace e autodeterminazione ai popoli proprio perché incompleta sul piano istituzionale. Non è l’idea di cooperazione europea a essere messa in discussione, ma la sua riduzione a mercato senza sovranità politica.


Paragrafo su ReArmEU

A questo punto, diventa inevitabile confrontare questo impianto storico e teorico con le scelte oggi in discussione a livello europeo. È qui che emergono alcune ambiguità rilevanti. Proprio per evitare equivoci, è però necessario distinguere tra l’idea di difesa europea emersa dal pensiero federalista e alcune delle politiche oggi in discussione a livello dell’Unione. In particolare, il piano noto come ReArmEU presenta evidenti ambiguità. Non siamo di fronte alla costruzione di una Comunità Europea di Difesa, né a un trasferimento reale di sovranità in materia militare, ma prevalentemente a un rafforzamento degli eserciti nazionali, attraverso un aumento coordinato — ma non integrato — della spesa.

Questo è un punto cruciale. Una crescita quantitativa dei bilanci militari, se non accompagnata da integrazione delle catene di comando, standard comuni, capacità operative condivise e controllo politico sovranazionale, rischia di produrre frammentazione e duplicazioni. In altri termini, più Stati armati, non un’Europa più capace di decidere.

La lezione della CED e del federalismo europeo resta attuale: la pace non si costruisce sommando eserciti nazionali, ma sottraendo la forza armata alla logica esclusiva della sovranità statale. Da questa prospettiva, la questione non è “spendere di più”, ma spendere insieme, meno e meglio, oltre che decidere insieme.

In questo quadro, non può essere ignorato il ruolo giocato da alcuni governi che, pur beneficiando pienamente dell’appartenenza all’Unione, contribuiscono attivamente a diffondere una rappresentazione dell’UE come soggetto bellicista. Il caso dell’Ungheria di Viktor Orbán è emblematico: un Paese che partecipa ai processi decisionali europei, usufruisce delle risorse comuni, ma al tempo stesso costruisce una narrazione politica fondata sulla delegittimazione dell’Unione come attore di pace.

Questa ambiguità non è solo retorica. Essa incide concretamente sulla capacità dell’Europa di parlare con una voce sola, alimentando confusione tra difesa comune, riarmo nazionale e presunta volontà di guerra. In tal modo, la critica all’Unione non nasce da un confronto sul merito delle politiche, ma da una strategia di logoramento interno che utilizza il tema della guerra come strumento di consenso politico nazionale.

È anche attraverso queste contraddizioni che si rafforza il frame secondo cui l’Europa “vorrebbe la guerra”, mentre in realtà ciò che manca è proprio una vera capacità europea di decisione, oggi ostacolata tanto da interessi nazionali divergenti quanto da un uso strumentale dell’appartenenza all’Unione.


Il debito comune per aiutare l’Ucraina

La stessa esigenza di chiarezza vale anche per un altro tema spesso usato per rafforzare l’equazione “difesa europea = guerra”: il sostegno finanziario all’Ucraina. Questa distinzione è essenziale anche per comprendere le decisioni europee sul sostegno all’Ucraina, incluso il ricorso a strumenti di finanziamento comuni. Qui è necessario evitare ogni forma di neutralismo retorico. La guerra in Europa non è un evento simmetrico, ma il risultato dell’aggressione militare di uno Stato sovrano a un altro, in violazione del diritto internazionale.

Il sostegno finanziario europeo all’Ucraina non equivale a una “scelta di guerra”, ma al riconoscimento del diritto di uno Stato a difendersi da un’invasione. Confondere la difesa dell’aggredito con la volontà di escalation significa cancellare la distinzione fondamentale tra chi la guerra la subisce e chi la conduce.

Anche in questo caso, il problema non è l’esistenza di strumenti comuni, ma la loro collocazione in un quadro politico chiaro. Senza una vera capacità europea di decisione e responsabilità, il rischio è che anche scelte nate per difendere l’ordine europeo vengano percepite come eterodirette o opache.


Il nodo rimosso dal dibattito attuale

Alla luce di questa storia, l’equazione “difesa europea = guerra” appare per ciò che è: una semplificazione ideologica che capovolge le cause con gli effetti. Non è la difesa comune a generare guerra; al contrario, è l’assenza di una capacità condivisa che espone l’Europa alla dipendenza esterna e alla fragilità strategica.

Il vero nodo non è “pace contro guerra”, ma chi decide la sicurezza europea, come e con quali controlli democratici. Rifiutare ogni discussione sulla difesa senza proporre alternative concrete non è pacifismo: è rinuncia alla responsabilità politica. Il pacifismo maturo non nega i problemi della sicurezza. Li istituzionalizza, li governa, li sottrae all’arbitrio degli Stati e agli automatismi delle alleanze. È esattamente ciò che il progetto europeo, nelle sue intenzioni originarie, aveva cercato di fare.


L’Europa non è nata per fare la guerra. È nata per imparare a non farla più. Dimenticarlo non rende più pacifici. Rende solo più fragili

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