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Evoluzione costituzionale in senso sistemico e federalismo

Questo articolo costituisce la terza parte del lavoro di riflessione in progress realizzato, per ora, da un piccolo gruppo di amici che condivide l'idea di una trasformazione delle Istituzioni, a tutti i livelli, in senso sistemico-federale.

In questo punto si presentano i cardini del federalismo e si propongono alcuni esempi di come la Costituzione italiana dovrebbe essere trasformata per recepire le istanze federalistiche.

Resta inteso che, anche in questo caso, la responsabilità di ciò che è scritto è solamente personale, ancorché i contenuti siano frutto di una condivisione del gruppo citato.

L'auspicio del gruppo che lo ha prodotto, è bene ribadirlo, è quello di un allargamento della riflessione a quanti hanno voglia di riprendere in mano con responsabilità e con visione il destino della propria terra.



1. Le fondamenta del federalismo

Il federalismo si fonda sulla volontà di due o più entità (di norma nazionali) di sottoscrivere un patto (foedus) volto ad affrontare e risolvere insieme problematiche di comune interesse. In questo senso, “federalismo significa potere che si esprime dal basso, potere che ha origine primariamente nell’Ente che si federa, e che trova un proprio equilibrio con il potere del governo centrale, attraverso nuovi organi costituzionali e leggi correttive, proprie di tutti i veri Stati federali”[1].

È facile rilevare in questo concetto una sostanziale analogia con il linguaggio proprio della teoria dei sistemi: due o più unità parziali libere e indipendenti sottoscrivono un accordo per raggiungere comuni finalità. In sostanza, una federazione è un sistema, qualcosa che non esiste di per sé ma un fenomeno che emerge dalla volontà delle parti, una volontà che va esercitata e praticata con sistematicità e continuità.

Alla base di tale accordo o processo di aggregazione c’è il principio di sussidiarietà[2] che stabilisce una cosa elementare: le decisioni vanno prese al livello politico-istituzionale più vicino al cittadino e devono essere delegate a un livello superiore solo per ragioni di efficienza ed efficacia della decisione, oppure quando la tematica su cui si discute coinvolge comunità più ampie.

Se si parte dal presupposto che ogni aggregazione parte dall’individuo è evidente che è questo il primo titolare del potere che lo delega a livelli organizzativi e politico-istituzionali superiori proprio in virtù di quanto indicato in precedenza. Federalismo significa “potere decisionale ai cittadini” circostanza che nulla ha a che vedere con il decentramento amministrativo o con la “devolution”[3]. Di converso, occorre anche precisare che la delega di potere a un livello superiore non significa che viene meno il diritto-dovere di monitorare l’esercizio di quel potere, così come non significa che il delegato si ritenga titolare originario dello stesso.

A livello organizzativo istituzionale, pertanto, il potere originario risiede nelle comunità sulla base dell’idea che finché è utile, conveniente e non impatta su altri interessi esterni alla comunità, ognuna deve essere in grado di provvedere a sé stessa fintanto che è possibile, mentre partecipa solidaristicamente con altre comunità per questioni comuni e di interesse più ampio.[4]

Orbene, la piena e consapevole adozione del principio di sussidiarietà, permette di individuare tanti livelli di decisione politico-istituzionali quanti sono gli ambiti di condivisione dei problemi: estremizzando, dal condominio al quartiere (o villaggio), dalla città alla provincia, dalla regione alla nazione, dallo stato all’insieme di stati (o di nazioni se c’è coincidenza tra gli stessi), fino ai continenti e al mondo.

Ciò non dovrebbe sorprendere: come si può pensare che a decidere sul cambiamento del sistema di climatizzazione di un condominio possa essere il Comune?

Analogamente, come si può pensare di affrontare il tema dei cambiamenti climatici senza un coinvolgimento di tutti i popoli e gli stati del mondo?

In sostanza, ogni livello istituzionale ha legittima sovranità nel proprio campo di competenza, che rappresenta esattamente un ambito di indipendenza. Va da sé che il dialogo e la negoziazione sono gli strumenti per addivenire a forme di coordinamento tra “sovranità” distinte, coordinamento che deve prevedere, necessariamente, forme di condivisione di risorse, a partire dalle conoscenze, in funzione di comuni finalità, a iniziare dalla pace e dallo sviluppo socio-economico armonico ed ecosostenibile di tutti gli individui e i loro aggregati.


2. Federalismo e autonomia: il contributo di Emilio Lussu[5]

Al fine di evitare fraintendimenti è utile precisare che la prospettiva federalista si distingue assai nettamente da quella autonomista. Giova in tal senso ricorrere al contributo di Emilio Lussu che in un saggio del 1933 pubblicato nel n. 6 di Giustizia e Libertà, scrive:


Frequentemente accade di parlare con uno che riteniamo federalista perché si professa autonomista e scopriamo invece, che è unitario con tendenze al decentramento. L’autonomia concepita come decentramento non è più autonomia.

Gli autonomisti della Sardegna si chiamavano autonomisti perché per autonomia intendevano dire federalismo, non già decentramento... D’ora innanzi adoperando la terminologia “Federalismo’ non ci saranno più equivoci.


Poi precisa:


Ora la differenza essenziale fra decentramento e federalismo consiste nel fatto che per il primo la sovranità è unica ed è posta negli organi centrali dello Stato ed è delegata quando è esercitata dalla periferia; per l’altro è invece divisa fra Stato federale e Stati particolari e ognuno la esercita di pieno diritto.


Lussu esprime in questo passo, modernamente, con precisione e lucidità – e ancora oggi di grande attualità – la discriminante vera fra autonomia/decentramento e federalismo. E quando afferma che per fare chiarezza politica non basta più dire «autonomia», bisogna dire «federazione» non lo sostiene per una questione lessicale e terminologica, ma di sostanza.

La visione autonomistica, anche rivista e irrobustita, dello Stato è ancora tutta dentro l’ottica dello stato ottocentesco, unitario, indivisibile e centralista, che al massimo può dislocare territorialmente spezzoni di potere dal “centro” alla “periferia”. O, più semplicemente, può prevedere il decentramento amministrativo e concedere deleghe limitate e parziali alla Regione che, comunque, in questo modo continua ad esercitare una funzione di “scarico”, continuando ad essere utilizzata come un terminale di politiche, sostanzialmente decise e gestite dal potere centrale. Quando Lussu parla di sovranità “divisa” fra Stato federale e Stati particolari – o meglio federati – di “frazionamento della sovranità”, pensa quindi alla rottura e alla disarticolazione dello stato unitario “nazionale” che deve dar luogo a una forma nuova di Stato di Stati, in cui “per Stati non si intendono più gli Stati nazionali degradati da Enti sovrani a parti di uno stato più grande, ma parte o territori dello stato grande elevati al rango di stati membri[6].

In questo modo il potere sovrano originario e non derivato spetta a più Enti, a più Stati e perciò scompare la sovranità di un unico centro, dello stato come veniva concepito nell’Ottocento – che Lussu critica in quanto “unica e assorbente” – di un unico potere e soggetto singolare per fare capo a più soggetti e poteri plurali. Con questa impostazione Lussu supera il concetto di unipolarità con cui si indica la dottrina ottocentesca in cui libertà e diritto fondano la loro legittimità solo in quanto riconducibili alla fonte statale.

Lussu non si limita a disegnare in astratto il futuro stato federale, gli stati membri e le rispettive competenze, ma individua con precisione e nettezza anche l’ente, il soggetto che dovrà costituire lo stato membro o federato: la regione. E lo argomenta così:


La regione in Italia è una unità morale, etnica, linguistica e sociale, la più adatta a diventare unità politica... La provincia al contrario non è che una superficiale e forzata costruzione burocratica. La provincia può sparire come è venuta, in un sol giorno, la regione rimane. La terra, il clima, le acque, la posizione geografica, antiche influenze commerciali, rapporti e attitudini particolarmente sviluppati da tempo, contribuiscono a dare a ogni regione una sua economia caratteristica e quindi una vita sociale chiaramente distinta.


Da questo passo emerge non solo che per Lussu il futuro stato federato dovrà identificarsi con la regione ma che egli fonda il suo federalismo sulla identità etno-linguistica. Vi è di più: descrivendo la regione Lussu ci dà – al di là delle sue intenzioni – un ritratto compiuto della “nazione”, modernamente intesa e da non identificare con lo stato; identificazione operata invece dalla cultura ottocentesca, che purtroppo permane ancora e che permeava profondamente la visione di Lussu tanto da indurlo a parlare di “nazione mancata”, intendendo, forse, “stato mancato”.

Il ritratto che Lussu delinea della regione si attaglia in modo particolare alla Sardegna che “deve essere nello stato italiano all’incirca quello che è il cantone nella confederazione svizzera e il lander nella repubblica federale tedesca”. Ma anche alla Sicilia perché “godevano di una situazione di privilegio in quanto il mare era sufficiente a risolvere ogni contestazione territoriale”. Ma in genere per tutte le regioni prevede un’organizzazione federale “a un dipresso come i «paesi» in Germania, le «province» in Austria e i «cantoni» in Svizzera”. Scrive a proposito della Svizzera[7]


Io ho conosciuto molto da vicino la Svizzera, la piccola grande democrazia organizzata in Stato federalistico, la più antica che l’Europa conosca. Ebbene, è a quel tipo d’organizzazione federalistica dello Stato democratico che la Sardegna aspira.


Quanto alla questione del nome delle entità che dovrebbero costituire lo stato federale: regioni, repubbliche, stati federati, territori autonomi, Lussu non ha dubbi: avrebbero dovuto chiamarsi “repubbliche federate”. E così argomenta:


Io propendo per la denominazione di ‘repubblica’ perché questa è la più rispondente a mettere in evidenza la parte di sovranità conquistata e a dare più popolarmente coscienza dell’attività autonoma e distinta nel seno della intera comunità italiana.


A chi obiettava che per diventare «stato» le nostre regioni sarebbero troppo piccole rispondeva: “Lo sarebbero come stati indipendenti, - io preciserei ‘separati’-, non lo sono come stati federati.” E aggiunge: “Nella Confederazione svizzera non vi è un solo cantone più grande delle più piccole delle regioni italiane”. Non era quindi il criterio del territorio - secondo Lussu - ad impedire a una regione di essere l’unità di base di uno stato federale. Inoltre, l’autore di Un anno sull’altipiano ricordava a questo proposito che nulla vietava a due o più regioni che avessero interessi comuni o unità di vita economica di unirsi in un solo stato federale.


3. Individui e istituzioni tra libertà e necessità di collaborazione

Uno dei temi di più difficile soluzione riguarda il rapporto tra gli individui (sistemi reali) e le istituzioni (sistemi concettuali): i primi cioè esistono in modo oggettivo, le seconde sono il frutto della volontà dei primi.

Questa constatazione non è banale poiché pone una serie di questioni finora risolte in un modo che se poteva andare bene nel passato, oggi costringono a una più attenta riflessione. La ragione fondamentale della necessità di “aprire” un dibattito sul tema è connessa con le trasformazioni sociali intervenute nel mondo nel corso degli ultimi decenni e che hanno visto una porzione crescente di popolazione accedere ai più alti livelli della conoscenza e del sapere umano. Ciò significa che se prima il coordinamento sociale poteva utilmente avvalersi di strumenti “coercitivi” perché il contesto non poteva capire la necessità di comportamenti finalizzati al perseguimento di comuni obiettivi, ora questo è più difficile da accettare e, soprattutto, è da rifiutare a priori sulla base di una visione filosofica dell’uomo come soggetto capace di intendere e di volere, quindi di decidere sempre più responsabilmente per sé e per i propri simili.

Ergo, ci si deve chiedere: possono essere costrette le persone a sottostare a vincoli ritenuti obsoleti, inadeguati o inefficienti in relazione alle legittime ambizioni di ciascuno di potersi realizzare nella vita scegliendo il meglio per sé?

Nel contempo, se fino a ora anche nei paesi che fondano il loro ordinamento giuridico sulla partecipazione della popolazione senza distinzione di censo, reddito, genere, credo religioso o altro (concetto di democrazia), è accettabile che il meccanismo della rappresentanza (così come lo abbiamo conosciuto) debba operare sempre e comunque quando, anche grazie alle tecnologie digitali, oggi si possono realizzare forme diffuse e frequenti di partecipazione diretta ai processi decisionali riguardanti, sempre più, questioni diverse e mutevoli nel tempo?

Si tratta di domande legittime che riportano al rapporto tra individui e istituzioni: sono i primi che costituiscono le seconde o, invece, queste ultime hanno assunto talmente vita propria da essere dominanti sui primi al punto che il ruolo degli individui tende a essere non quello formalmente dichiarato di cittadini ma di sudditi?

La complessità degli argomenti posti non può liquidarsi con posizioni “dogmatiche”, spesso contrapposte ed estremiste, volte a evitare la discussione e imporre l’accettazione acritica di quel che è stato finora ereditato dal passato. Come si possono spiegare altrimenti le azioni di varia natura esercitate dagli Stati per reprimere i tentativi di “recupero” di una soggettività degli individui che si identificano come popoli che con quello Stato invece non vogliono accettare un rapporto di sottomissione con lo Stato di cui fanno parte?

Non si tratta, in altre parole, di liquidare come “anacronistici processi di secessione” le istanze di popoli, come i Catalani, i Corsi, gli Scozzesi, ecc. che, per il tramite di azioni come i referendum, rivendicano una soggettività che considerano annullata se non criminalizzata e, comunque, non valorizzata, anche in termini di sfruttamento a fini di sviluppo socio-economico. Come evidenziato nel primo dei tre articoli pubblicati su questo blog, il problema legato alla revisione del rapporto tra individui e istituzioni, se fosse affrontato in modo dialogico e finalizzato a creare effettive ed eque condizioni di sviluppo per tutti, non darebbe luogo a contrapposizioni che esacerbano gli animi e che accentuano la percezione di un profondo squilibrio tra istituzioni detentrici del potere, che pure deriva dal popolo, e gli individui che in questo modo perdono la loro sovranità trasformandosi da cittadini in “sudditi obbedienti”.

Si tratta di argomenti che riportano al grande tema proprio delle scienze sociali della contrapposizione tra individualismo e collettivismo, incapaci, ciascuno, di addivenire a una soluzione[8].

Per superare questa dicotomia occorre una terza via, costituita, come è stato indicato in precedenza, dall’approccio sistemico, l’unico metodo in grado di tenere insieme le prospettive di tutela dell’individuo (le parti) con quelle dell’insieme (il tutto, il collettivo). Ciò che rende possibile l’interazione tra le parti e il tutto sono le relazioni e ciò che le rende possibili: il dialogo reciproco che si fonda sull’ascolto dei punti di vista dell’altro, la condivisione delle risorse, l’assunzione diffusa delle responsabilità e, infine, la trasparenza dei comportamenti che ha come base il riconoscimento reciproco degli interessi legittimi.


4. I criteri di adesione all’Unione europea come base di revisione della Costituzione italiana

A supportare la necessità di revisione della Costituzione italiana, oltre che un approccio metodologico rispettoso delle parti e il tutto, vi sono gli stessi Trattati europei che nel definire i valori fondamentali all’articolo 2[9], stabilisce all’articolo 7 che il Consiglio europeo, “deliberando all'unanimità su proposta di un terzo degli Stati membri o della Commissione europea e previa approvazione del Parlamento europeo”, possa “constatare l'esistenza di una violazione grave e persistente da parte di uno Stato membro dei valori di cui all'articolo 2”.

Nello stesso articolo 7, al comma 3, invece, si stabilisce che “Qualora sia stata effettuata la constatazione di cui al paragrafo 2, il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata, può decidere di sospendere alcuni dei diritti derivanti allo Stato membro in questione dall'applicazione dei trattati, compresi i diritti di voto del rappresentante del governo di tale Stato membro in seno al Consiglio. Nell'agire in tal senso, il Consiglio tiene conto delle possibili conseguenze di una siffatta sospensione sui diritti e sugli obblighi delle persone fisiche e giuridiche”.

Peraltro, anche con riferimento ai criteri che disciplinano l’ingresso di nuovi Stati dentro l’UE, i Trattati stabiliscono che siano rispettati i seguenti:

  • la presenza di istituzioni stabili a garanzia della democrazia, dello Stato di diritto, dei diritti umani, del rispetto e della tutela delle minoranze;

  • un’economia di mercato affidabile e la capacità di far fronte alle forze del mercato e alla pressione concorrenziale all’interno dell’Unione;

  • la capacità di accettare gli obblighi derivanti dall’adesione, tra cui la capacità di attuare efficacemente le regole, le norme e le politiche che costituiscono il corpo del diritto dell’Unione (l’acquis), nonché l’adesione agli obiettivi dell’unione politica, economica e monetaria.

Di rilievo è l’ultimo capoverso del comma 3 dell’articolo 3 che recita testualmente: “Essa – l’Unione europea (ndr) – rispetta la ricchezza della sua diversità culturale e linguistica e vigila sulla salvaguardia e sullo sviluppo del patrimonio culturale europeo.”

Analogamente occorre considerare quanto previsto dalla Convenzione UNESCO per la Protezione e Promozione della Diversità delle Espressioni Culturali[10] nell’ambito della quale, all’articolo 1, si esplicitano chiaramente le finalità riguardanti tra gli altri:

  • la protezione e la promozione delle diversità e delle espressioni culturali;

  • la creazione delle condizioni che permettano alle culture di prosperare e interagire liberamente, in modo da arricchirsi reciprocamente;

  • la promozione e il rispetto per la diversità delle espressioni culturali nonché la presa di coscienza del loro valore a livello locale, nazionale e internazionale;

  • la riaffermazione dell’importanza della connessione tra cultura e sviluppo per tutti i Paesi, soprattutto per quelli in via di sviluppo, e sostenere le misure nazionali e internazionali volte a evidenziare il valore capitale di questo nesso;

  • il riconoscimento della natura specifica delle attività, dei beni e dei servizi culturali quali portatori d’identità, di valori e di significato;

  • la riaffermazione del diritto sovrano degli Stati di conservare, adottare e applicare politiche e misure che ritengono adeguate in materia di protezione e di promozione della diversità delle espressioni culturali sul proprio territorio.

Anche in considerazione di quest’ultimo riferimento alla Convenzione UNESCO emerge in modo abbastanza chiaro che lo Stato italiano, almeno con riferimento al tema del rispetto e della tutela delle minoranze, in questo caso etniche e linguistiche, abbia articoli della Costituzione quanto meno ambigui e suscettibili di una attenta rivalutazione.

Ecco perché, qui di seguito, si propongono alcune possibili modifiche volte a rendere più coerente la Carta costituzionale italiana con i Trattati dell’Unione.


5. Modifiche costituzionali necessarie: alcuni esempi

Quanto ora indicato, se ritenuto ragionevole e perseguibile, rappresenterebbe una prospettiva rispetto alla quale non conta quanto oggi siamo distanti dal renderla operativa, quanto il fatto di agire subito per avvicinarsi ad essa. In tal senso non c’è un prima e un dopo, si agisce laddove oggi è possibile farlo alle condizioni ora esistenti.

Va da sé che questo progetto richiede una revisione della Costituzione italiana per renderla capace di accogliere al suo interno questi principi organizzativi che non ledono affatto le fondamenta della Carta ma anzi, le danno maggior vigore, proprio perché più rispondente alla complessità della situazione attuale che, come è noto, non va ridotta ma compresa e gestita.

In particolare, i primi articoli che richiedono un sostanziale adeguamento sono l’1, il 5 e il 6 in modo da renderli coerenti col principio che coniuga unità e diversità, quest’ultima da considerare come parte costitutiva della Repubblica e non come soggetto di delega come, purtroppo, accade ora.

Nello specifico, l’articolo 1, proprio per far emergere la natura sistemica ed emergente dello Stato dovrebbe indicare, ponendo rimedio agli errori del passato, che la sovranità appartiene congiuntamente ai popoli che abitano il territorio dello Stato e ai rispettivi territori. In questo senso, per esempio, la nuova formulazione potrebbe essere la seguente:


L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sulla pace, sulla libertà individuale, sull'equità e sulle pari opportunità nella formazione dell'individuo e nell'accesso al lavoro.

La sovranità appartiene congiuntamente al popolo e alle Comunità territoriali, organizzate in Comuni, Province e Regioni, il cui esercizio si esprime sulla base della pari dignità con gli organi centrali dello Stato e del principio di sussidiarietà per quanto riguarda la ripartizione delle competenze e delle risorse.


Ma non vi sembra molto più bello e profondo, anche nella sola formulazione lessicale?


L’articolo 5 dovrebbe essere modificato proprio nella stessa direzione: attualmente il potere è in capo allo Stato mentre in una prospettiva sistemica, sulla base del principio di sussidiarietà, dovrebbe essere in capo ai popoli e ai territori che si organizzano attribuendo a livelli superiori quelle parti di potere che secondo criteri di efficienza ed efficacia coinvolgono tutti i popoli o è utile e conveniente che siano gestiti a tale livello superiore. Allo stesso tempo, occorre codificare il principio secondo il quale l’unità nasce dal riconoscimento delle diversità e non invece ribadire il principio contrario dell’unitarietà e della indivisibilità che non intacca le differenze negative da rimuovere e impedisce invece la valorizzazione di quelle positive. Una nuova possibile configurazione dell’articolo 5 potrebbe essere la seguente:


La Repubblica si fonda sulla comune volontà delle Comunità locali organizzate in Comuni, Province e Regioni di operare, secondo criteri di efficienza ed efficacia, per il benessere, la felicità e l’equità di trattamento dei popoli che la abitano, adottando come criterio di ripartizione delle competenze e delle risorse, il principio di sussidiarietà.

La Repubblica si impegna a garantire la pari dignità dei diversi organi rappresentativi dei popoli e dei territori, attraverso misure di perequazione sociale e territoriale, combinando criteri demografici con altri territoriali e socio-economici.


Infine, nell’articolo 6 occorre stabilire che le minoranze linguistiche hanno pari dignità con l’italiano nei territori in cui esse vengono parlate, favorendo altresì lo studio di tali lingue proprio per conservare e valorizzare nel tempo queste specificità. Si tratta in altre parole di riconoscere in Costituzione la possibilità del bilinguismo perfetto. A tale proposito, per esempio, una nuova configurazione dell’articolo 6 potrebbe essere la seguente:


La Repubblica riconosce la pari dignità con l’italiano alle diverse lingue parlate nei diversi territori. In particolare, la pari dignità è riconosciuta al francese, al tedesco, al ladino, al sardo, al catalano, all'occitano, al friulano, al franco-provenzale, all'albanese, al croato allo sloveno nei territori in cui queste lingue sono parlate.

La Repubblica, al fine di garantire la tutela e la valorizzazione di queste lingue ne garantisce e ne promuove l’insegnamento e lo studio nelle scuole di ogni ordine e grado, così da incentivare il plurilinguismo come competenza di maggiore competitività delle popolazioni.


Una architettura come quella così ipotizzata crea le basi per la trasformazione dello Stato da centralista e unitario in sistemico-federale, così che l’autonomia di ogni livello di potere politico-istituzionale diventi sostanziale, perché garantita da responsabilità di ciò che si fa e da risorse direttamente gestite, pur conservando a livello federale un sistema di perequazione volto a ridurre e rimuovere le differenze negative di tipo socio-economico, ciò che in gergo si chiama federalismo fiscale e che non avrebbe bisogno di specificazione, visto che il federalismo non sarebbe tale senza responsabilità delle parti e senza risorse proprie.

Non è da trascurare il fatto che questa trasformazione crea le basi per un recupero di fiducia dei cittadini nelle Istituzioni repubblicane, oggi fortemente compromessa e testimoniata dalla progressiva scarsa partecipazione dei cittadini alle consultazioni elettorali. Sarebbe invece utile restituire agli stessi maggiori opportunità di partecipazione alla vita democratica, cosa che, nella prospettiva indicata, suggerisce una integrazione dell’attuale Carta con l’ampliamento dell’utilizzazione dell’istituto referendario non solo in termini abrogativi ma anche propositivi e confermativi, circostanza che oggi sarebbe possibile grazie all’uso delle moderne tecnologie che possono permettere l’esercizio del voto senza il dispendio di risorse umane, materiali e finanziarie che di fatto scoraggiano l’esercizio di questo diritto[11].

[1] Contu G. (2002). Il federalismo nella storia della Sardegna contemporanea. In AA.VV. (2002). Il Federalismo Sardo, Atti del Convegno tenutosi a Cagliari il 6 e 7 dicembre 2001. Edizioni Fondazione Sardinia, p. 16 [2] Nell'ordinamento italiano, si distingue una sussidiarietà verticale, che è il criterio di allocazione delle competenze fra livelli di governo differenti e mira ad attribuire la generalità delle competenze e delle funzioni alle autorità territorialmente più vicine ai cittadini; e una sussidiarietà orizzontale, che contempla la suddivisione dei compiti fra le pubbliche amministrazioni e i soggetti privati. Tuttavia, è utile considerare che il principio di sussidiarietà verticale è stabilito anche dall'art. 5 del Trattato della Comunità europea: "Nei settori che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità interviene […], soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell'azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono, dunque, a motivo delle dimensioni o degli effetti dell'azione in questione, essere realizzati meglio a livello comunitario". [3] Cfr. Lobrano G. (2002). Fderalismo e De-centramento. I caratteri e le distinzioni. In AA.VV. (2002). Il Federalismo Sardo, Atti del Convegno tenutosi a Cagliari il 6 e 7 dicembre 2001. Edizioni Fondazione Sardinia, p. 111. [4] A questo proposito è utile richiamare quando recitava l’articolo 2 della legge 142 del 1990 che disciplinava l’Autonomia dei comuni e delle province. In particolare, esso stabiliva testualmente: “1. Le comunità locali, ordinate in comuni e province, sono autonome. 2. Il comune è l'ente locale che rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi e ne promuove lo sviluppo. 3. La provincia, ente locale intermedio fra comune e regione, cura gli interessi e promuove lo sviluppo della comunità provinciale. 4. I comuni e le province hanno autonomia statutaria ed autonomia finanziaria nell'ambito delle leggi e del coordinamento della finanza pubblica. 5. I comuni e le province sono titolari di funzioni proprie.” [5] Questo paragrafo riprende, leggermente adattato da Francesco Casula, un articolo pubblicato il 3 marzo 2015 dallo stesso nella rivista online Truncare sas cadenas. https://truncare.myblog.it/2015/03/03/federalismo-pacifismo-il-messaggio-lussu-40-anni-dalla-morte-francesco-casula/ [6] l’intera frase virgolettata è tratta da Norberto Bobbio, “Federalismo”. “Introduzione a Silvio Trentin”. [7] Vargiu A. (2006). I discorsi di Emilio Lussu nella Sardegna del ’44. Edizioni ISKRA, Ghilarza. [8] Illuminanti, in proposito, sono le tesi dell’economista austriaco Friedrich August von Hayek, il quale rifiuta la presenza di un’autorità governativa che pone alla schiavitù gli individui, non condividendo quindi gli ideali tipici collettivistici in cui era necessaria la stessa. Per questo studioso, lo Stato si deve limitare a porre in essere e in modo semplice le regole basilari per favorire lo scambio tra individui. Cfr. Hayek (von) Friedrich A., Individualismo: quello vero e quello falso, Rubettino,1990. [9] L’articolo 2 recita testualmente: “L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini”. [10] https://www.unesco.beniculturali.it/wp-content/uploads/2017/11/convenzione2005.pdf [11] A tale proposito sarebbe utile prendere esempio dalla vicina Confederazione elvetica dove grazie a questo istituto il popolo ha davvero possibilità di incidere positivamente sul processo legislativo. Si veda per esempio https://www.swissinfo.ch/ita/strumentario-della-democrazia-svizzera_il-referendum--ovvero-la-politica-sotto-una-spada-di-damocle/44101794

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