Il diritto all’autodeterminazione e l’ipocrisia del riconoscimento: perché alcuni popoli restano “invisibili”
- giuseppe melis
- 2 ore fa
- Tempo di lettura: 3 min

Premessa
C’è qualcosa di profondamente incoerente — per non dire ipocrita — nel modo in cui la comunità internazionale decide di “riconoscere” (o ignorare) l’esistenza degli Stati. È un’ipocrisia giuridica, ma prima ancora morale, quella che emerge quando il diritto all’autodeterminazione dei popoli si scontra con la realpolitik.
In questi giorni, il caso della Palestina è tornato al centro dell’arena globale. Alcuni Stati europei hanno annunciato il riconoscimento dello Stato palestinese, mentre altri lo usano come leva per esercitare pressioni su Israele, con messaggi del tipo: “Se non smettete di bombardare Gaza, riconosceremo la Palestina”. Ma questo rovescia completamente l’ordine dei principi: non dovrebbe forse valere il diritto prima della contingenza, la legittimità prima della convenienza?
Il riconoscimento come moneta di scambio
Il riconoscimento di uno Stato, nel diritto internazionale, è un atto unilaterale e discrezionale. Ma non esiste una regola obbligatoria che imponga di riconoscere ogni entità che soddisfi i criteri minimi: territorio, popolazione e governo. Il riconoscimento non dipende dalla realtà di fatto, ma dalla volontà politica di chi riconosce.
In sostanza, il riconoscimento è diventato una merce negoziale. Uno strumento per premiare o punire, per esercitare pressione diplomatica o per mantenere equilibri strategici. Il diritto all’autodeterminazione, pur sancito solennemente nelle carte delle Nazioni Unite e nei Patti internazionali, resta sospeso nel vuoto, salvo nei casi in cui coincide con l’interesse delle potenze.
Popoli con (o senza) Stato: i casi che fanno riflettere
Oggi esistono popoli che si definiscono nazioni, che vantano una lingua, una storia, una cultura, un territorio, e che in alcuni casi hanno persino espresso — con strumenti democratici — la volontà di costituirsi in Stato. Eppure il riconoscimento internazionale non arriva. Perché?
I Curdi: 40 milioni di persone, divise tra Turchia, Iran, Iraq e Siria. Uno dei casi più eclatanti di popolo negato.
I Catalani e i Baschi: referendum consultivi, repressioni, e un’identità nazionale evidente. Ma restano internamente subordinati a Stati centralisti.
I Sardi: una delle più antiche civiltà del Mediterraneo, la cui specificità è spesso ignorata anche sul piano culturale.
I Palestinesi: riconosciuti da oltre 130 Stati, ma senza pieno status né protezione effettiva.
Gli Ucraini: qui il riconoscimento non è mancato, ma ha innescato una guerra di “riconoscimenti speculari” (Crimea, Donbass) tra blocchi geopolitici.
In tutti questi casi, l’elemento costante è la subordinazione del diritto alla forza. Chi ha l’appoggio delle potenze ottiene legittimità. Chi è scomodo, resta invisibile.
Un principio tradito
Il principio di autodeterminazione è inciso in trattati e risoluzioni internazionali, ma non ha meccanismi vincolanti. Uno Stato nasce solo quando altri Stati decidono che debba nascere. L’identità e la volontà dei popoli non bastano.
Ecco perché minacciare il riconoscimento della Palestina solo se Israele smette di colpire Gaza è un controsenso. Il diritto all’autodeterminazione non può dipendere dalla condotta del proprio oppressore.
Una riflessione per l’Europa: federalismo contro centralismo ottocentesco
La contraddizione diventa ancora più evidente se guardiamo all’Unione Europea, che ospita al suo interno numerose nazioni senza Stato, le cui istanze vengono sistematicamente ignorate in nome dell’integrità degli Stati membri.
Ma qui il problema non è l’Europa in quanto tale: è la forma Stato ottocentesca a essere il vero vincolo, il perimetro rigido che impedisce all’Unione di evolvere verso un modello più democratico, aperto, federale.
Il federalismo europeo potrebbe rappresentare la soluzione più matura: una forma politica che consenta alle nazioni storiche e culturali di esercitare pienamente la loro identità, senza essere costrette alla secessione o all’irrilevanza.
Un’Europa autenticamente federale:
riconoscerebbe la plurinazionalità come ricchezza, non come minaccia;
separerebbe sovranità interna e rappresentanza esterna, consentendo a realtà come la Catalogna, la Corsica o la stessa Sardegna di essere parte attiva del progetto europeo;
supererebbe lo statalismo difensivo che oggi impedisce qualsiasi forma di autodeterminazione effettiva.
Chi crede e lavora per l’Europa dei popoli non può più difendere l’Europa degli Stati centralisti.
Conclusione
Il diritto internazionale continua a tradire i suoi stessi principi. Il riconoscimento degli Stati resta un atto arbitrario, piegato a logiche di potere. Ma l’Europa ha una chance: riformarsi in senso federale, per rendere possibile l’autodeterminazione senza distruzione, e l’identità senza isolamento.
La vera sfida, oggi, non è difendere l’unità artificiale degli Stati nazionali. È costruire un’unità più ampia, più giusta, che rispetti le identità e moltiplichi le libertà. Un’unità che non abbia paura di riconoscere chi esiste.
Comments