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Istituzioni: retaggio del passato o utili strumenti da ripensare?

Questo articolo rappresenta la seconda parte del mio lavoro di analisi e discussione con altri amici per arrivare a proporre un Manifesto politico volto alla revisione dello Statuto di Autonomia della Sardegna.

In tale ambito affronto brevemente e prioritariamente a) il tema della utilità delle Istituzioni per poi b) soffermarmi su come la scienza possa aiutare a costruire architetture istituzionali efficienti, efficaci e democratiche.

Anche in questo caso saranno graditi tutti quei contributi volti a migliorare questo documento che metto a disposizione di chi vuole proporsi per governare la Sardegna in modo diverso da ciò che è stato fino a oggi.



1. Utilità delle istituzioni

Il malcontento crescente verso le Istituzioni politiche, acclarato da una crescente disaffezione all'esercizio del principale diritto esistente nelle mani dei cittadini (il voto) porta alcune correnti di pensiero a teorizzare l'inutilità delle Istituzioni. Questo pensiero è poi alla radice di pubblicazioni che, nel mostrare tutte le contraddizioni e le debolezze degli ordinamenti che danno origine a queste Istituzioni, non si limitano a far prendere consapevolezza su tutto ciò (cosa buona e giusta) ma alimentano, più o meno volontariamente, fastidio, contestazione e, non raramente, odio, il quale ultimo non aiuta a prendere decisioni razionali.

Orbene, nel tentativo di fornire un contributo al dibattito, ho ritenuto di dedicare uno spazio per rispondere alla domanda: servono le istituzioni?

Detta con altre parole questa domanda cerca di chiarire semplicemente se gli individui per soddisfare le proprie necessità umane possono fare a meno delle Istituzioni oppure se, invece, esse sono indispensabili e allora è un problema di come sono progettate, organizzate e attuate.


2. Il contributo della scienza economica

Era il 1937 quando Ronald Coase pubblicò nella rivista Economica (http://www.richschwinn.com/.../2013%20Fall%20340%20...) un articolo intitolato "The nature of the firm". In questo suo lavoro di ricerca nell'interrogarsi sulla natura dell'impresa si domandava in sostanza che cosa ne giustificasse l'esistenza.

La sua conclusione è stata che le imprese esistono perchè svolgono una funzione che altrimenti i singoli individui (tutti noi che siamo il mercato) non potrebbero svolgere da soli. Ronald Coase introdusse questo tema contrapponendo i concetti di gerarchia (oggi possiamo chiamare questo concetto istituzione o organizzazione) e mercato. In sostanza, tutte le volte che qualcuno di noi ha bisogno di qualche cosa (che normalmente costa poco ed è prodotta in grande quantità) si rivolge al mercato. Se invece si tratta di beni e servizi specializzati, che richiedono competenze, ecc. allora preferisce internalizzare queste all'interno di un contesto organizzativo coordinato, quindi di un contesto istituzionale, chiamata impresa.

Estremizzando il discorso, se ciascuno di noi fosse in grado di produrre da sé tutto ciò di cui ha bisogno nella vita, non avrebbe bisogno di altri dai quali recarsi, chiedere, comprare, ecc. Analogamente, ci sono servizi che nessuno comprerebbe o che, per questioni di diversa disponibilità di risorse e opportunità qualcuno non si potrebbe permettere ma che sono indispensabili per avere determinati standard di civiltà (servizi sanitari, di smaltimento dei rifiuti, ecc.)

Orbene, a questo punto vi chiedo: - siete in grado voi, da soli, di procurarvi l'acqua di cui avete bisogno? - siete in grado voi di procurarvi, da soli, di ciò che ritenete utile per vestirvi, per viaggiare, per studiare, ecc.?

- siete in grado voi di allestire un sistema di smaltimento dei vostri rifiuti?

- come pensereste di viaggiare senza auto, moto, navi, aerei, ecc.?

- e se viaggiaste dove andreste a dormire, mangiare, ecc. se non ci fossero imprese che offrono questi beni e servizi?

- e chi vi dovrebbe curare se state male?

- in che modo compensereste chi vi cura se non avete beni e servizi da scambiare?

- e se siete malati e poveri e incapaci di lavorare come potreste sopravvivere se non c'è qualcuno che istituzionalmente si prende cura di voi?

Potrei continuare all'infinito e se voi foste in grado di rispondere sì a queste domande, allora non ci sarebbe alcun motivo per creare istituzioni che costano. In questo senso, per esempio, non avremmo bisogno di istituzioni comunali, regionali, statali, internazionali.

Ovviamente, vale il principio di efficienza in base al quale tutto ciò che posso fare da solo devo farlo da solo e ricercare forme di cooperazione, collaborazione e coordinamento con altre entità nel momento in cui riconosco che io da solo non posso fare una serie di cose o, in altre parole, servono risorse, capacità e competenze che io da solo non possiedo.

Si potrebbe pensare che tutto ciò serve a livello di piccole comunità mentre non ci sarebbe necessità di disporre di istituzioni internazionali come l'ONU o l'Unione europea, ma pure il World Trade Organization o il Fondo Monetario Internazionale o l'Organizazione Mondiale della Sanità.


L'idea di un mondo che torna alle sue origini, fatto solo di boschi, praterie, animali, ecc., dove ognuno vive nel suo piccolo spazio e si alimenta di cibo locale e degli animali del luogo è alquanto affascinante e bucollica ma, forse, non troverebbe i consensi necessari nel mondo. Nè si può pensare che tutto ciò possa funzionare senza aver condiviso alcune regole base comuni. Ecco, quindi che gli uomini, nel corso della storia, hanno concepito istituzioni nel tentativo di creare condizioni per lo sviluppo di relazioni stabili, eque e positive per la vita di ciascuno. Mi si dirà che non hanno funzionato bene, che non funzionano bene, che sono state utilizzate da alcuni per finalità diverse da quelle per cui sono nate. Benissimo, si intervenga su questi aspetti ma non si proponga la distruzione delle stesse ritenendole aprioristicamente inutili o dannose.

Quindi, se le Istituzioni hanno una loro ragione di esistere, il problema non è distruggerle perché funzionano male, ma cambiarle e renderle efficienti. In altre parole, io sono per una DISTRUZIONE CREATIVA ma sono totalmente contrario a qualsiasi forma di DISTRUZIONE TOUT COURT. Quest'ultima si chiama SFASCISMO, che col FEDERALISMO, per esempio, NON HA NULLA A CHE FARE!!!

In altre parole, se la distruzione di ciò che c'è, seppure con la giusta e corretta osservazione che quello che c'è è limitante di molte libertà, non funziona bene, è soggetto a corruttela di varia natura, ecc., rimanda alla sola proposta che ognuno si fa i caxxi suoi si chiama GIUNGLA, dove a quel punto vince sempre e solamente il più forte, il più prepotente, ecc.. Per esempio: ci sono multinazionali che hanno bilanci superiori a quelli di molti Stati. Secondo voi che potere negoziale può avere uno Stato come questo verso la multinazionale? Pensate a Amazon o Google o Microsoft o Ryanair, ecc. che hanno sede in contesti diversi da quello dove noi viviamo. Bene, da noi vengono a vendere, fare profitti, ma le imposte le pagano altrove. Oppure Ryanair che negozia per sè le condizioni più vantaggiose con i singoli aeroporti che invece si muovono in modo indipendente, senza coordinamento.

Questo è un punto dirimente per chiunque voglia costruire una proposta politica alternativa all'esistente. Io voglio cambiare la Costituzione italiana, voglio cambiare i Trattati dell'Unione europea, voglio cambiare lo Statuto di autonomia della Regione Sardegna, voglio contribuire a creare una società più giusta, equa, responsabile, dove ciascun individuo abbia la possibilità di affermarsi come tale e di collaborare con altri per comuni obiettivi e interessi.

Distruggere l'Unione europea, distruggere lo Stato italiano, distruggere le istituzioni di qualsiasi tipo SENZA una proposta alternativa CREDIBILE, ATTUABILE, FATTA DI PASSI BEN DEFINITI è un progetto che non dà prospettive, che non ha nulla che possa migliorare le condizioni di vita dei cittadini di questo mondo.


3. La teoria dei sistemi applicata alla organizzazione politico-istituzionale

Le considerazioni esposte nella prima parte dello studio sulla revisione dello Statuto derivano dall’adozione di un metodo di analisi prima e di proposta poi, quello sistemico. Quest’ultimo, infatti, trae origine dallo studio della realtà fatta di parti in relazione tra loro.

Non è un caso che alla base di tale metodo ci sia il concetto di “sistema”, cioè un insieme di parti interagenti tra loro, tale che ogni parte condiziona l’altra ed è da essa a sua volta condizionata. Un sistema, pertanto, è un fenomeno emergente dall’interazione tra le parti. Dal che si evince che, non tutti gli insiemi di parti sono sistemi.

Se queste parti di un insieme godono di un certo grado di libertà, come nel caso dei sistemi organizzativi e sociali (sistemi aperti) ciascuno dei quali ha una propria specifica identità, non è scontato che ci sia interazione e, se esiste, potrebbe anche assumere connotazioni negative, al punto che invece di generare valore, lo distruggono. Per questi motivi, in ambito organizzativo, sono i valori e gli obiettivi che favoriscono e guidano la costruzione dell’interazione tra le diverse identità interessate e, in base a questi, il sistema delle relazioni formali e informali che si genera per effetto dell’adozione di una appropriata struttura organizzativa che definisca funzioni, compiti e responsabilità.

Partire da questa premessa metodologica implica che alla base di ogni costruzione organizzativa di tipo sistemico ci sia l’individuo, la sua capacità di intendere e di volere, e, non ultima, la sua libertà e i suoi diritti inalienabili, il cui unico limite è rappresentato dall’impatto che il suo comportamento può originare in termini di pregiudizio alla libertà di altri individui come lui. A tale proposito, Karl Popper (1902-1994) abbracciava la tesi secondo cui: “ciò che esiste veramente sono gli uomini [..], in parte dogmatici, critici, pigri, diligenti o altro. [..] Ciò che non esiste è la società [..]. Uno dei peggiori sbagli è credere che una cosa astratta sia concreta. Si tratta della peggior ideologia[1].

Tutte le organizzazioni, comprese le istituzioni politiche, nascono (o dovrebbero nascere) da una volontà di donne e uomini liberi che decidono di aggregarsi, si organizzano e si danno delle regole per interagire positivamente perseguendo comuni finalità, sapendo che queste relazioni sono dinamiche e, quindi, possono evolvere nel corso del tempo, rinforzarsi o indebolirsi se non adeguatamente gestite.

A questo punto sorge la domanda: cosa succede alle parti (sia individui che aggregati degli stessi) che intraprendono questo percorso di aggregazione? Si annullano e perdono di identità? Si annacquano nel sistema? Oppure continuano a esistere conservando ciascuna una propria identità, un proprio grado di libertà e un proprio ambito di competenza decisionale esclusiva?

La risposta, in questo caso è: dipende. Infatti, se avvenisse la scomparsa di una o più parti o il loro depotenziamento fino all’emarginazione significherebbe che una parte ha prevalso sull’altra e questa prevaricazione potrebbe avere diverse cause. Altrimenti, proprio perché le parti hanno concordato obiettivi comuni, ognuna di esse ha titolo e diritto per essere parte attiva del processo interattivo e, di conseguenza, ha titolo per conservare la propria identità e un proprio grado di libertà, pur all’interno di un processo di progressiva aggregazione funzionale al perseguimento di comuni obiettivi o interessi di ordine più generale.

In altre parole, quanto testé evidenziato mostra come l’emergere del sistema possa derivare, alternativamente, da processi di integrazione per colonizzazione oppure per inclusione: nel primo caso, se l’integrazione deriva dal prevalere di una parte, si va incontro a processi di annullamento o prevaricazione di una identità sull’altra[2], mentre nel secondo caso si ha un processo evolutivo basato sul riconoscimento e sul rispetto reciproco delle diversità, considerata ciascuna come una ricchezza. In questo secondo caso è lecito affermare che ogni parte conserva un grado di libertà/indipendenza rispetto alle altre parti e rispetto al sistema, per tutto ciò che rimane nelle prerogative esclusive della parte considerata, a partire dall’individuo.

L’implicazione concettuale è che una parte può essere un sottosistema di un sistema più ampio e, nel contempo, rimanere indipendente nelle decisioni per tutto ciò che è efficiente ed efficace gestire in modo diretto, a patto che le stesse non contravvengano a principi e interessi più generali coinvolgenti anche altre parti. Nell’applicazione di questo principio si configura la pari dignità di ogni livello decisionale, senza una gerarchia precostituita.


4. Implicazioni dell’applicazione della teoria dei sistemi sulla revisione dello Statuto sardo e della Costituzione italiana

Per entrare nel concreto, se prendiamo le Regioni italiane attuali come parti costitutive della Repubblica, in quanto espressive di popoli e territori – cosa che dovrebbe essere naturale e scontata se si conoscesse la storia iniziata con il passaggio del Regno di Sardegna ai prìncipi del Piemonte[3] – occorre capire quali sono i valori e i princìpi che si pongono alla base dello stare insieme di queste parti e, nel contempo, capire quali sono invece le specificità positive che differenziano tali parti e che vanno tutelate con il riconoscimento di adeguati poteri e risorse, e quelle negative da rimuovere, che negano alla base i valori e i princìpi che questi popoli vogliono darsi per stare insieme in modo civile e conveniente per tutti.

Applicando questo metodo si arriva facilmente a individuare alcune aree di modifica della Carta costituzionale in modo che, per esempio, si valorizzino le differenze positive:

- Riconoscendo che i popoli che abitano i territori dello Stato hanno storie, culture e lingue meritevoli di tutela e che, per queste aree e per questi popoli, occorrerebbe inserire adeguati poteri per la tutela e la valorizzazione di tali differenze, la cui esistenza e perpetuazione non solo non contrastano con lo status di cittadino italiano ed europeo ma, addirittura, rafforzerebbero il senso di appartenenza allo Stato, proprio perché rispetto al passato, ne sentirebbero una maggiore appartenenza divenendone i primi difensori, come del resto è avvenuto nel caso della costruzione della Confederazione elvetica[4];

- Riconoscendo che le differenze di sviluppo sociale ed economico affondano le radici nel fallimento delle politiche di sviluppo attuate fin dall’inizio della Repubblica, il cui principale limite è stato rappresentato dall’essere calate dall’alto, senza alcun legame con le realtà dei luoghi[5]. Eppure, oggi si sa bene, come previsto dai regolamenti europei che disciplinano l’uso delle risorse dei fondi strutturali e delle altre politiche comunitarie, che alla base di qualsiasi progetto di programmazione occorre una stretta interazione e collaborazione tra Territori, Stato e Commissione europea sulla base del principio di responsabilità diffusa, in grado di prevedere non solo poteri ma anche risorse proprie così che la fiscalità posta in essere in questi territori possa essere controllata dagli stessi cittadini, sapendo bene che non ci sarà lo Stato a intervenire qualora tali risorse non vengano utilizzate in modo efficace ed efficiente.

È a partire da queste considerazioni che ho maturato le seguenti proposizioni:

1) non si può revisionare efficacemente lo Statuto sardo se non si interviene sulla Costituzione italiana;

2) modificare la Costituzione italiana è interesse di tutti i popoli che abitano questo Stato e che sono insoddisfatti del suo funzionamento;

3) i Sardi hanno interesse a dialogare con gli altri popoli che abitano l'Italia per fare massa critica rispetto alla necessità di modificare la Costituzione;

4) qualsiasi progetto di revisione statutaria o costituzionale si fa per costruire qualcosa e non contro qualcuno;

5) le uniche proposte di revisione dello Statuto e della Costituzione devono fondarsi sulla scienza sistemica e non sulle ideologie, una proposta che sia in grado di conciliare l'indipendenza delle parti con il coordinamento delle stesse per il raggiungimento di comuni obiettivi.


------------------------------------------------ [1] Popper K.R. (1990). La scienza e la storia sul filo dei ricordi. Intervista di Guido Ferrari, Jaca Book-Edizioni Casagrande, Bellizona, pp.24-25. [2] Esattamente quello che è accaduto nella penisola italica a partire dal 1720 quando il Regno di Sardegna passò ai Savoia che poi, dopo l’occupazione degli altri regni e territori della penisola, diedero luogo al Regno d’Italia diventata Repubblica dopo il referendum post-bellico del 1946. [3] Ci si vuole in sostanza riferire al fatto che l’unificazione dell’Italia è stata imposta dall’alto, senza il consenso delle popolazioni, e che presupporre che esista un popolo italiano è una forzatura in termini storici. È vero invece che più popoli, insistenti su territori differenti, con proprie specificità sono stati messi insieme per volontà del governo sabaudo e per interesse delle classi industriali del nord della penisola italica. Quando Massimo D’Azeglio affermò che “Abbiamo fatto l’Italia, ora dobbiamo fare gli Italiani” non faceva altro che evidenziare queste diversità, allora considerate negative e, per questa ragione, oggetto di progressiva eliminazione, ancorché, a tutt’oggi, non ci sia riusciti, per fortuna. [4] Un articolo interessante per capire come sia nata la Confederazione elvetica si trova qui https://www.swissinfo.ch/ita/come-la-svizzera-diventò-la-svizzera--le-tappe-fondamentali-prima-del-1848/45810668. Di rilievo appare anche questo articolo in cui si spiegano le ragioni che supportano, ancora oggi, la presenza dei Cantoni, da taluni ritenuti troppo piccoli e che altri, invece, considerano fondamentali per la conservazione degli equilibri fin qui raggiunti. https://www.swissinfo.ch/ita/federalismo-cantoni-svizzera-quanti-ce-ne-vogliono/41171660 [5] Si pensi, riferendoci alla Sardegna, al processo di industrializzazione realizzato col Piano di rinascita basato su alcuni errori di fondo, tra cui da un lato quello di pensare che la trasformazione della gente da agricoltori e allevatori in operai potesse eradicare definitivamente il banditismo, peraltro creato proprio dalle politiche sabaude sia con la legge delle chiudende che con altri interventi che hanno accresciuto le disparità socio economiche, e dall’altro, dal ritenere che lo sviluppo industriale basato sulla grande industria motrice potesse far nascere un indotto di imprese ad esse collegate.

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