Questo articolo come l’intera nuova legge elettorale democratica (LED) nasce prioritariamente dalle discussioni, nate in seno all’Associazione Sardegna Federale, con l’amico Renato Orrù e dai conseguenti confronti con molte Persone Libere con le quali da tempo stiamo interagendo. L'uso del plurale è quindi dovuto alla condivisione della responsabilità del testo proposto.
Art. 9 - Espressione del voto
(da Nuova LED - Nuova Legge Elettorale Democratica - estratto sintetico)
1. La votazione per l'elezione nel PARLAMENTO SARDO avviene su un'unica scheda CON DOPPIA CANDIDATURA, UNA PER GENERE … (omissis) … L'elettore esprime il suo voto per una delle liste tracciando un segno nel relativo rettangolo, e DEVE INDICARE DUE NOMI di preferenza scrivendo il cognome, ovvero il nome e cognome di DUE CANDIDATI DI GENERE DIFFERENTE compresi nella lista stessa… (omissis) … Qualora l'elettore esprima il suo voto soltanto per la lista circoscrizionale o UN SOLO CANDIDATO O DUE CANDITATI in LISTE DIFFERENTI il voto è NULLO.
FAC-SIMILE RIQUADRO SCHEDA ELETTORALE
Premessa
La democrazia è quella forma di governo che si basa sulla sovranità popolare e garantisce a ogni cittadino la partecipazione in piena uguaglianza all’esercizio del potere pubblico (https://www.treccani.it/enciclopedia/democrazia).
CI SIAMO CHIESTI (E NON SOLO NOI): è normale che alla competizione elettorale del 2014 per il Consiglio Regionale della Sardegna ci sia stata una candidata che prendendo 76.000 voti non sia entrata in tale Assemblea? È normale che, cinque anni dopo, nel 2019 un candidato che ha preso 85.000 voti non sia entrato in tale Assemblea? In altre parole, benché il popolo abbia esercitato la sua sovranità, come mai ad essa non è stato dato seguito?
La risposta, banale, risiede nella attuale legge elettorale, concepita con il fine precipuo di limitare la “partecipazione in piena uguaglianza all’esercizio del potere pubblico”.
Il paradosso di questa situazione è che quei due candidati che hanno preso decine di migliaia di voti non sono entrati perché è stata applicata la legge ma, come si può non prendere atto che nel contempo è stata compiuta una autentica ingiustizia, negando proprio quel principio che dovrebbe essere alla base del sistema repubblicano.
È normale, a questo punto, chiedersi:
· Chi ha votato quella legge?
· L’hanno voluta i cittadini?
· È stata sottoposta alla legittimazione di un referendum popolare?
· Se no, vi sembra normale che degli eletti decidano per sé stessi e questa prerogativa non sia, invece, in capo a al popolo che dovrebbe essere sovrano?
ESISTE UN PARADOSSO “DEMOCRATICO”: quello degli squilibri nella rappresentanza della struttura sociale, quindi sia con riferimento ad un'equa presenza di donne e uomini sia, a nostro parere, di generazioni differenti che, come dovrebbe essere evidente, esprimono bisogni, interessi, comportamenti differenti e che sarebbe equo che ciascuna di esse potesse rappresentare nelle istituzioni.
Proponiamo, quindi, una breve analisi.
Le donne in Consiglio Regionale sono solo il 13,3% mentre la distribuzione per fasce d’età vede che al di sotto dei 40 anni ci sono 6 consiglieri (10% del totale), tra i 41 e i 50 ne abbiamo 20 (33,3% del totale), 18 tra 51 e 60 (30% del totale) e 16 tra i 61 e i 70 anni (26,7%).
Ora, se si considerano i dati demografici al 31 dicembre 2022 la situazione è la seguente:
- Popolazione femminile in Sardegna, 50,9%;
- Popolazione tra i 20 e 40 anni, 19,9%;
- Popolazione tra i 41 e i 50 anni, 15%;
- Popolazione tra i 51 e i 60 anni, 16,9%;
- Popolazione con oltre 61 anni, 33,3%.
In sostanza, la rappresentanza delle donne nel Consiglio regionale è di 37,6 punti percentuale inferiore a quella della struttura demografica attuale. Se poi osserviamo i dati per classi di età osserviamo che gli under 40 dovrebbero essere rappresentati in una percentuale superiore a quella attuale del 9,9% mentre sono sovra rappresentate le fasce di età che vanno dai 41 ai 50 e dai 51 ai 60 anni. Ergo, la domanda che si dovrebbero porre tutti coloro che vogliono un autentico sistema democratico è: come mai esistono queste disparità?
Per rispondere al quesito proponiamo la seguente riflessione che inseriamo in un box a parte.
L’origine del “problema” con un richiamo storico Torniamo brevemente con la mente alla fine della Seconda guerra mondiale e al referendum che sancì la fine “formale” della monarchia e l’inizio della repubblica. Ebbene, i dati del censimento del 1951 mostrano che almeno il 13% della popolazione non sapeva né leggere né scrivere e, almeno il 59,2% degli adulti, non aveva la licenza elementare (https://terzomillennio.uil.it/blog/i-livelli-di-istruzione/) su un totale di poco più di 45 milioni di abitanti. In sintesi:
I confini dei ruoli sociali tra donne, uomini e bambini erano ben definiti e nessuno li poneva in discussione.
La comunicazione pubblica era unidirezionale e proveniva da pochissime fonti: principalmente i quotidiani e la radio sul piano mediatico, mentre su quello della quotidianità essa proveniva da quei pochi, in percentuale, che grazie allo studio, erano arrivati a ricoprire ruoli considerati allora di prestigio.
In questo contesto era normale fidarsi dell’avvocato, del medico, del prete, del maestro elementare, o del professore universitario. Tutti ruoli sociali riconosciuti, apprezzati e modello di riferimento per indurre i propri figli a studiare e migliorare così le condizioni di esistenza umana.
Masse di persone con modesta scolarizzazione erano naturalmente indotte a “credere” a chi “ne sapeva più di loro”.
I partiti di massa di quel periodo sapevano come interpretare queste istanze: DC, PCI e altri che incarnavano, rispettivamente, valori liberali, repubblicani, socialisti riuscivano a veicolare le attese di persone che, uscite dalla guerra, speravano in un mondo migliore.
Ebbene, oggi la situazione sociale come si presenta?
La popolazione è cresciuta in quantità ma è anche aumentato il tasso di scolarizzazione, si sono moltiplicate le fonti di accesso alle informazioni, i ruoli sociali di riferimento non sono più solo quelli citati in precedenza e, anzi, per certi versi alcuni di quelli vengono considerati molto meno prestigiosi di un tempo. Questo vuol dire che è aumentato sensibilmente il numero delle persone che “pensa” senza vincoli ideologici, che non si sente in dovere di seguire alcun pensiero dominante, ecc..
Il risultato dei cambiamenti indicati, dovuti anche alle aperture dei mercati e allo sviluppo degli scambi internazionali, ha originato una maggiore e naturale frammentazione sociale che ha portato alla incapacità delle ideologie tradizionali di interpretare la realtà, alla scomparsa di tanti partiti dell’epoca post bellica che su quelle ideologie hanno costruito le loro fortune, allo svuotamento delle loro sedi in termini di riferimento culturale per la formazione politica delle persone, al tentativo di diversi dirigenti di quelle forze politiche (talvolta riuscito, altre meno) di riciclarsi sotto nuove etichette, sia per apparentamento che per separazione ma, in sostanza, alla loro incapacità di guidare le masse, perché semplicemente le masse non esistono più. Il fatto stesso che in Italia quasi il 60% delle persone rinunci all’esercizio del voto testimonia la “libertà” di affrancarsi da chi invece vorrebbe incanalare le stesse nei rispettivi “pensieri unici”.
Sul piano elettorale cosa possiamo osservare?
Nel dopoguerra vigeva un sistema proporzionale e i partiti erano definiti e ben organizzati; non c’era il pericolo che ne potessero sorgere troppi altri e, se questo fosse accaduto, sarebbero rimasti confinati a percentuali irrilevanti. La partecipazione al voto era altissima e il cittadino poteva scegliere a chi dare la propria preferenza, scrivendo il nome o i nomi sulla scheda. Le donne e i giovani candidati erano pochissimi perché la società era strutturalmente e culturalmente maschilista e gerontocratica.
Oggi, sulla base della ossessiva ricerca della governabilità è stata sacrificata la rappresentatività e, di conseguenza, si è deciso di passare a un sistema di tipo maggioritario; ciò, ha determinato la riduzione nella partecipazione al voto, anche perché il cittadino non può più scegliere per chi votare, visto che i nomi sono prestampati e le candidature sono decise dalle segreterie di partiti; questi ultimi contano ormai pochissimi iscritti. Di fatto, la sovranità popolare è limitata, direi umiliata.
Linee guida per ri-generare la voglia di votare
Norma fondamentale in tema di partecipazione alla vita politica è l'articolo 51, primo comma, della Costituzione, secondo la quale tutti i cittadini dell'uno o dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. Successivamente, a seguito di una modifica del 2003 (L. Cost. n. 1/2003), dovuta anche ad un orientamento espresso dalla Corte costituzionale in una sentenza del 1995, è stato aggiunto un periodo secondo cui la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini.
La domanda, a questo punto, diventa: questi principi ispirati all’uguaglianza sono equi? Cioè garantiscono davvero la parità che si dive di voler favorire? Se la risposta è no, evidentemente, questo principio di uguaglianza di diritto non corrisponde a equità dei risultati. Un motivo ulteriore per riflettere sul testo costituzionale che da molti viene inopinatamente considerato “sacro e inviolabile”. Peraltro, a livello sovranazionale, la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea – che dopo il trattato di Lisbona ha assunto valore vincolante per l’ordinamento italiano – prevede che la parità tra uomini e donne deve essere assicurata in tutti i campi e che tale principio non osta al mantenimento o all'adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato (art. 23 inserito nel Capo III relativo all'uguaglianza).
Ora, se l’obiettivo è quello di garantire la rappresentatività del corpo sociale e, di conseguenza, la rappresentatività delle donne nelle istituzioni dovrebbe essere persino banale adeguare quelle norme, anche costituzionali, che di fatto limitano questo diritto. In altre parole, non si dovrebbero produrre cervellotiche e incomprensibili norme di legge che di fatto non cambiano il risultato della sotto-rappresentatività di una parte del corpo sociale di un contesto istituzionale ma, al contrario, occorrerebbe prioritariamente definire il risultato che si vuole raggiungere e, di seguito, adeguare quelle norme. Ecco perché la questione non è e non può essere solo giuridica, prerogativa esclusiva di costituzionalisti.
Come uscire da questa situazione?
La scienza statistica in questo ci è di grande aiuto: bisogna stabilire che nelle istituzioni donne e uomini debbano essere rappresentati in ragione del peso demografico di ciascuna di queste categorie, con riferimento ai diversi contesti per i quali esistono assemblee elettive.
In altre parole, così come già ora ci sono i collegi elettorali che “segmentano” il territorio dello stato in circoscrizioni, perché non aggiungere un altro criterio di segmentazione, permettendo quella stratificazione che meglio rappresenta l’universo di riferimento?
Nel concreto: se oggi in Sardegna il 50,9% del corpo elettorale è costituito da donne e il 49,1% da uomini, nell’attuale Consiglio regionale dovrebbero legittimamente sedere rispettivamente 31 donne e 29 uomini. Contestualmente quanto vale per il Consiglio Regionale deve riguardare anche i Comuni e Province.
In pratica, i partiti presenterebbero in ogni circoscrizione i propri candidati di lista distinti tra donne e uomini. Il cittadino potrà votare liberamente un numero di candidati proporzionale al numero di donne e uomini che la singola circoscrizione può eleggere. Alla fine, si conteranno i voti presi da ciascuna candidata e da ciascun candidato in ogni lista e verranno stilate, separatamente, la graduatoria degli uomini più votati e quella delle donne più votate: entreranno nell’assemblea quelle donne e quegli uomini che hanno ottenuto il maggior numero di voti in quella circoscrizione.
Questo sistema presuppone il ritorno al proporzionale puro, evitando in questo modo: il cervellotico abominio delle coalizioni costruite artificialmente solo per finalità di potere, le soglie di accesso e il calcolo dei resti da ripartire.
A questo punto i paladini della governabilità si inalberano perché impedendo le coalizioni all’origine non ci si può vincolare a vicenda. Ma questo vincolo, come abbiamo osservato e come osserviamo ancora oggi, è funzionale alla gestione del potere, non alla soluzione dei problemi delle persone. Nella nostra visione, invece, sarebbe appropriato che nelle assemblee elettive le maggioranze si formassero di volta in volta in funzione degli obiettivi da raggiungere e dei problemi da risolvere, e non sulla base di schieramenti ideologici e di solo esercizio del potere.
Sembra l’uovo di Colombo e di fatto lo è. Ma, così come il bravo docente non è quello che ne sa tanto ma non sa spiegare, bensì quello che riesce a farsi capire rendendo facile ciò che è difficile, non si capisce invece perché in politica si usi un linguaggio lontanissimo da una comprensione rapida e immediata anche a persone dotate di normale capacità di intendere, di volere e di leggere e capire un testo scritto. Soprattutto perché, al di là dell’aspetto tecnico, sono questioni che investono la vita di tutti e tutti devono essere messi nella condizione di accedervi.
È in virtù di tali ragionamenti che nasce la proposta dell’art 9 inserito all’inizio di questo articolo che fa parte di ciò che con ambizione abbiamo definito Nuova Legge Elettorale Democratica (LED), e che si propone di rimuovere altri importanti risvolti negativi della attuale legge elettorale in vigore in Sardegna. Una proposta che è nostra intenzione, come Associazione Sardegna Federale, proporre all’attenzione di quanti (persone, associazioni, partiti, ecc.) hanno interesse verso questo argomento.
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