La sicurezza come alibi per il controllo
- giuseppe melis
- 5 giu
- Tempo di lettura: 4 min
Diritti, legittimità e la deriva repressiva nel Decreto Sicurezza 2025

L’approvazione del Decreto Sicurezza da parte del Senato italiano il 4 giugno 2025, con voto di fiducia e senza un dibattito parlamentare approfondito, rappresenta un tornante critico nella vita democratica del Paese. Non si tratta soltanto di nuove norme penali, ma della visione di società che lo Stato intende promuovere: una visione in cui l’ordine è posto al di sopra della libertà, e la forza viene preferita alla persuasione.
Lo scenario non è nuovo. Filosofi e sociologi come Michel Foucault e Zygmunt Bauman hanno messo in guardia contro il potere che, perdendo legittimità sociale, si rifugia nella repressione. Una democrazia fragile o delegittimata tende a irrigidirsi, a moltiplicare i dispositivi di controllo e a interpretare ogni conflitto come una minaccia. Ma in questo modo, rischia di tradire se stessa.
Il Decreto Sicurezza, che introduce nuovi reati (come il blocco stradale, l’occupazione di immobili, la resistenza passiva in carcere), estende i poteri preventivi (Daspo urbano, bodycam), e limita alcune libertà essenziali (di manifestare, di circolare, di organizzarsi), pone questioni di compatibilità con i principi fondamentali della nostra Costituzione.
Una filosofia della paura e della disciplina
Dietro la norma, c’è una filosofia politica implicita: quella del “pugno di ferro”, della deterrenza punitiva e della criminalizzazione del dissenso. Si costruisce un nemico interno – il manifestante, il migrante, il senza fissa dimora – e si rafforza l’idea che la protesta, anche pacifica, sia un disordine da reprimere. È un’idea autoritaria dell’ordine pubblico, che ignora le radici sociali dei conflitti e si fonda su una logica premiale verso il potere costituito.
Parallelamente, si afferma una sorta di “etica selettiva della legalità”, dove i reati contestati ai soggetti deboli o conflittuali vengono perseguiti con severità crescente, mentre funzionari o figure apicali – anche in casi gravi come abusi, malasanità o corruzione – vengono talvolta tutelati, garantiti, o sollevati da responsabilità penali. Non è una giustizia eguale per tutti, ma una visione piramidale della legittimità: chi protesta è sospetto, chi comanda è presunto giusto.
Cosa dice la Costituzione italiana?
L’art. 13 della Costituzione sancisce che la libertà personale è inviolabile e che ogni restrizione può avvenire solo nei casi e modi previsti dalla legge, e sotto controllo dell’autorità giudiziaria. L’art. 17 tutela il diritto di riunione pacifica. L’art. 21 garantisce la libertà di espressione, e l’art. 24 l’accesso alla giustizia. Infine, l’art. 3 vieta discriminazioni arbitrarie, anche implicite, che alcune misure del decreto (es. verso migranti o persone senza fissa dimora) rischiano di alimentare.
Il principio di proporzionalità – cardine dello Stato di diritto – impone che ogni limitazione a un diritto fondamentale sia necessaria, adeguata e proporzionata allo scopo perseguito. Ma introdurre pene detentive per condotte non violente come blocchi stradali o manifestazioni pacifiche rischia di violare proprio tale principio.
Un possibile conflitto con la CEDU
Anche la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), che ha valore di legge ordinaria in Italia, offre parametri importanti:
Articolo 10: libertà di espressione
Articolo 11: libertà di riunione e associazione
Articolo 5: diritto alla libertà e alla sicurezza
Articolo 6: diritto a un processo equo
La Corte di Strasburgo ha più volte ribadito che le restrizioni alle libertà civili devono essere "necessarie in una società democratica" e che la criminalizzazione della protesta non violenta viola tali principi (si veda, tra le altre, Oya Ataman c. Turchia, 2006).
Sicurezza o alibi per la paura?
Alla luce di tutto questo, il Decreto Sicurezza può essere letto come una reazione a una crisi di legittimità e di fiducia, non come una risposta a minacce reali e documentate. È il sintomo di uno Stato che, invece di affrontare i problemi strutturali – disuguaglianza, marginalità, insicurezza sociale – li reprime attraverso la forza normativa.
Ma la sicurezza non può essere un alibi per sospendere i diritti, né un criterio assoluto che giustifichi qualsiasi forma di controllo. Una società democratica non si misura dalla capacità di reprimere il dissenso, ma da quella di accoglierlo, ascoltarlo e integrarlo nel processo politico.
Oggi, il rischio è di scivolare verso una normalizzazione dello “stato di eccezione”, dove ciò che ieri era considerato emergenziale diventa la regola, e la paura plasma le politiche pubbliche più dei diritti.
Conclusione: quale direzione per la democrazia?
In definitiva, il Decreto Sicurezza non è solo un testo normativo, ma un indicatore della direzione politica e culturale che lo stato italiano intende prendere. È il segnale che, quando non si è più capaci di convincere, si inizia a costringere. E quando la forza diventa la risposta sistematica alla domanda di giustizia, il rischio non è solo giuridico ma etico: quello di legittimare, in nome della stabilità, un ordine che sacrifica i principi stessi della convivenza democratica.
Tocca ora alla cittadinanza democratica – intellettuali, studenti, sindacati, operatori del diritto, movimenti sociali – decidere se accettare questa deriva come inevitabile o contrastarla con la forza della ragione e del diritto. Perché, come ci ricorda Norberto Bobbio, la democrazia non è un dato acquisito, ma una costruzione continua. E oggi più che mai, richiede vigilanza, coscienza critica e resistenza civile.
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