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Mediterraneo, sensemaking e co-creazione di valore: verso un modello manageriale dei sistemi territoriali

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Questo contributo nasce a partire da una riflessione di Silvano Tagliagambe sul Mediterraneo come matrice culturale e simbolica. Qui provo, da economista aziendale e studioso di management, a svilupparne alcune implicazioni sul piano organizzativo, territoriale e istituzionale.


1. Introduzione: il Mediterraneo come matrice di senso

Il Mediterraneo è stato per secoli descritto come crocevia di popoli, civiltà, commerci, conflitti e scambi simbolici. Da Fernand Braudel in poi, sappiamo che esso non è semplicemente uno spazio geografico, ma un sistema storico e culturale complesso, capace di produrre strutture sociali, istituzioni e immaginari collettivi che hanno alimentato la nascita dell’Europa moderna. Ma negli ultimi decenni questa matrice simbolica è stata progressivamente espulsa dal nostro orizzonte di significato. Oggi il Mediterraneo appare sempre più come confine limitante, frattura che separa, crea tensione ed emergenza. Ciò che un tempo generava senso e relazioni, oggi viene vissuto come problema, rischio o residuo del passato.

Silvano Tagliagambe, da epistemologo, interpreta questa trasformazione come una sorta di “parricidio culturale”: l’Europa avrebbe reciso il legame con la propria origine mediterranea, trasformando un luogo vivo e generativo prima in “totem” nostalgico, poi in “tabù”. Un passato da citare ma non più da abitare. Eppure — ed è questo il punto chiave — le società non sono sistemi naturali: sono sistemi di significato. Vivono e agiscono all’interno di mondi simbolici che emergono dall’interazione tra persone, istituzioni, paesaggi, pratiche sociali, memorie e aspettative.

Se questo è vero, allora la crisi contemporanea dell’Europa non è solo economica, geopolitica o istituzionale. È anche — e forse soprattutto — una crisi di senso: difficoltà a nominare, comprendere, raccontare e progettare il nostro vivere insieme. Da questo punto di vista, il Mediterraneo non è un tema “storico”, ma per me un terreno su cui interrogarsi come studioso di organizzazione e management.

Il presente contributo muove da qui e prova a costruire un ponte teorico-operativo tra:

  • la lettura epistemologica del Mediterraneo come semiosfera culturale (Tagliagambe; Lotman),

  • le teorie del sensemaking (Weick),

  • la Service-Dominant Logic e la co-creazione del valore (Vargo & Lusch, nonché Prahalad e Ramaswamy),

  • l’approccio sistemico vitale (Golinelli),

  • e la pratica del management territoriale e organizzativo.

L’ipotesi è semplice, ma ambiziosa:

i territori — e le organizzazioni che li abitano — generano valore nella misura in cui diventano luoghi di co-creazione di senso.

Dove questo processo fallisce, non fallisce solo l’economia: fallisce la comunità. Da qui proverò a sviluppare un modello interpretativo e, in chiusura, alcuni orientamenti operativi.

 

2. Il Mediterraneo come semiosfera: storia lunga e produzione di significati

Per comprendere la portata della crisi contemporanea, conviene tornare alla storia lunga del Mediterraneo. Braudel ci ha insegnato a guardare alle “lunghe durate” — quelle dinamiche che attraversano i secoli e strutturano lo spazio sociale. Horden e Purcell hanno mostrato come il Mediterraneo non sia mai stato un semplice mare, ma una rete fittissima di connessioni ecologiche, economiche, culturali e cognitive. Le identità non si formavano per chiusura, bensì per ibridazione: lo scambio era condizione naturale della sopravvivenza.

Questa lettura è coerente con l’idea di semiosfera proposta da Jurij Lotman: ogni società vive all’interno di uno spazio culturale fatto di segni, memorie, simboli e narrazioni, continuamente rielaborati. Il Mediterraneo, in questo senso, è stato per secoli una macchina di produzione di significati.

In tale ambito, la Sardegna occupa una posizione particolare, sia geografica sia simbolica. È luogo di stratificazione millenaria di pratiche, memorie e infrastrutture cognitive. Paesaggi, architetture, riti e tradizioni non sono residui di folklore (come purtroppo in tanti anche in Sardegna tendono a fare), ma dispositivi di costruzione del senso collettivo. Tagliagambe insiste su un punto cruciale: la memoria non è archivio, ma processo dinamico di interpretazione, esattamente come sostengono oggi neuroscienze e scienze cognitive.

E tuttavia — ed è qui la frattura — gran parte di questo patrimonio non alimenta più la nostra capacità di progettazione collettiva. Viviamo in uno spazio ricchissimo di segni, ma povero di interpretazioni condivise. La storia non genera più senso: viene ridotta a identità di superficie o a narrazione commerciale.


3. Sensemaking: le organizzazioni come fabbriche di significato

Qui entra in campo Karl Weick, forse il più importante teorico della costruzione sociale del senso nelle organizzazioni. Per Weick (1995), le organizzazioni non sono strutture statiche, ma processi di interpretazione collettiva. Le persone non agiscono perché “conoscono la realtà”: al contrario, conoscono la realtà perché agiscono insieme e, retrospettivamente, danno significato a ciò che è accaduto.

Il sensemaking ha alcune caratteristiche fondamentali:

  • è sociale (avviene tra persone);

  • è retrospettivo (interpretiamo guardando indietro);

  • è continuo (non smette mai);

  • è radicato nell’azione (facciamo, e poi capiamo cosa abbiamo fatto);

  • è guidato dalle identità (individuali e collettive).

Se applichiamo questa lente ai sistemi territoriali, otteniamo un risultato potente:

👉 un territorio non “è” qualcosa in sé: diventa ciò che le sue comunità interpretano e narrano come significativo.

Le politiche pubbliche, l’impresa, il turismo, la cultura, le istituzioni scolastiche, i media locali… tutto concorre a tenere aperto — o chiuso — uno spazio di interpretazione condivisa.

Weick, inoltre, distingue tra sensemaking e sensegiving (sviluppato poi da Gioia e Chittipeddi, 1991):il primo è il processo con cui le persone danno senso alla realtà; il secondo è l’attività di offrire visioni, cornici interpretative, orizzonti di significato.

Di fronte alla crisi del Mediterraneo, possiamo dire che ciò che oggi manca non sono solo risorse economiche o istituzionali, ma piattaforme di sensemaking e sensegiving all’altezza della complessità contemporanea.


4. La co-creazione di valore come co-creazione di significato

La Service-Dominant Logic (Vargo & Lusch) ha trasformato il modo di intendere il valore economico. Non è più qualcosa che l’impresa “consegna” al cliente nello scambio di mercato. Il valore prende forma nell’uso, attraverso l’interazione di molteplici attori in un ecosistema di servizi. In questa prospettiva:

  • il valore è contestuale;

  • è relazionale;

  • è esperienziale;

  • e soprattutto è co-creato.

Ma il punto che qui ci interessa è ancora più profondo:

👉 non esiste valore senza significato.

Un’esperienza, un territorio, un prodotto, un servizio “valgono” quando entrano in una trama di senso riconosciuta e condivisa. Questo mette in relazione diretta:

  • economia,

  • cultura,

  • storia,

  • identità,

  • paesaggio,

  • istituzioni.

Il territorio non è piattaforma di scambio, ma ecosistema sociale in cui attori pubblici e privati negoziano continuamente identità, aspettative, norme, regole del gioco e proiezioni di futuro.

È qui che la Service-Dominant Logic incontra in modo naturale l’approccio sistemico-vitale (VSA). Questo approccio considera le organizzazioni e i territori come sistemi che restano vitali non perché crescono quantitativamente, ma perché riescono a mantenere nel tempo un equilibrio dinamico tra:

  • struttura,

  • relazioni,

  • valori condivisi,

  • e finalità riconosciute come legittime dalla comunità.

In altre parole, un sistema è vitale quando le cose che fa, le relazioni che attiva e i significati che circolano al suo interno restano coerenti fra loro.

La “vitalità” non è quindi uno stato fisiologico, ma un processo continuo di allineamento tra senso condiviso e capacità operativa: quando questa coerenza si spezza, non si indebolisce solo l’economia, ma l’intero tessuto sociale e istituzionale.


5. Il territorio come organizzazione estesa

Se mettiamo insieme:

  • Tagliagambe

  • Lotman

  • Weick

  • Vargo e Lusch

  • Golinelli

otteniamo un quadro teorico convergente: i territori sono organizzazioni estese, sistemi vitali di attori che co-creano senso e valore attraverso relazioni, istituzioni e narrazioni condivise.

In questo quadro:

  • il paesaggio è memoria resa visibile,

  • le pratiche sociali sono dispositivi di senso,

  • le imprese sono co-autrici di significato,

  • le politiche pubbliche sono architetture di interpretazione,

  • la cultura non è orpello, ma infrastruttura cognitiva.

Dove queste dinamiche funzionano, emergono:

✔ fiducia✔ capacità progettuale✔ cooperazione✔ attrattività sostenibile✔ radicamento e apertura

Dove falliscono, prevalgono:

❌ conflitti sterili❌ estrattivismo turistico❌ impoverimento simbolico❌ cinismo collettivo❌ perdita di futuro condiviso.


6. Federalismo, multilivello e governance del senso

Se il Mediterraneo è stato, lungo la storia, uno spazio di incontro tra differenze e di continua negoziazione culturale, allora questa logica di relazione non riguarda solo i territori in senso locale, ma anche le forme politiche con cui i popoli europei scelgono di organizzarsi. In altri termini: la questione istituzionale non è separata da quella culturale. Se il senso si costruisce insieme, anche le istituzioni devono essere pensate come luoghi di co-creazione del significato collettivo.

È in questa prospettiva che assume rilevanza il tema del federalismo. Un’Europa realmente federale non consiste semplicemente nella redistribuzione di competenze tra Bruxelles e gli Stati membri e le Comunità nazionali senza Stato. Essa può essere intesa, più profondamente, come un meccanismo di sensemaking multilivello, nel quale comunità locali, regioni, Nazioni, Stati e Unione partecipano, ciascuno secondo il proprio ruolo, alla definizione condivisa di ciò che significa “bene comune europeo”.

Il federalismo, letto in questo modo, non è un’ideologia, ma un’architettura della complessità: riconosce la pluralità delle identità, costruisce spazi di cooperazione, rende visibile la responsabilità politica e facilita la coerenza tra livelli diversi di decisione. È il contrario sia del centralismo tecnocratico, che annulla le differenze, sia del localismo ripiegato, che frammenta le comunità. È, potremmo dire, un sistema vitale di interpretazione condivisa. In questo senso, il federalismo non è soltanto una scelta costituzionale, ma anche una forma di responsabilità visibile: rende chiaro chi decide, per conto di chi, e con quali conseguenze.

Da questa prospettiva, anche il futuro dell’Unione Europea può essere letto come un grande processo di sensemaking in evoluzione. La possibile trasformazione, per volontà dei suoi cittadini, in una Federazione dei popoli europei — cioè in un’architettura istituzionale capace di coniugare unità politica e pluralità culturale — non rappresenta semplicemente una scelta giuridica o geopolitica. È, prima di tutto, un processo di co-creazione di significato: la progressiva costruzione di una narrazione condivisa su cosa significhi essere europei in un mondo interdipendente e fragile.

In questo quadro, anche un eventuale ritorno del Regno Unito nell’Unione — questa volta con piena partecipazione al progetto comune — non sarebbe soltanto un gesto negoziale tra Stati sovrani. Sarebbe piuttosto la riattivazione di un orizzonte di senso condiviso, un nuovo capitolo di quella storia europea che trova nel Mediterraneo una delle sue matrici più profonde di scambio, pluralismo e apertura.

Così inteso, il federalismo appare del tutto coerente con le teorie della co-creazione di valore. Le istituzioni non impongono significati dall’alto: abilitano processi di interpretazione reciproca tra i diversi livelli della comunità politica. E questo è, in fondo, ciò che il Mediterraneo ha rappresentato nei secoli: uno spazio di ibridazione continua e di costruzione collettiva di senso. Portare questa logica sul piano istituzionale significa far evolvere l’Europa non contro la propria storia, ma in profonda continuità con essa.


7. Dove stiamo fallendo oggi

Se guardiamo ai contesti mediterranei contemporanei con la lente del sensemaking e della co-creazione di valore, emergono con chiarezza alcune criticità strutturali che non riguardano solo l’economia in senso stretto, ma toccano la capacità stessa delle comunità di produrre e condividere significati.

La prima criticità riguarda il modo in cui vengono mobilitate le identità locali. In molti territori assistiamo a una crescente enfasi retorica sulle radici, sulla tradizione, sull’autenticità. Tuttavia, troppo spesso questa enfasi resta superficiale: produce storytelling, slogan, marchi, eventi simbolici, ma non attiva reali processi di co-costruzione del senso. L’identità diventa così immagine più che pratica sociale, narrazione confezionata più che elaborazione collettiva. Invece di generare autostima e capacità progettuale, rischia di produrre autocelebrazione e chiusura difensiva, anche perchè, troppo spesso, almeno nel caso della Sardegna, la gran parte della popolazione ignora la propria storia, le proprie radici per affidarsi invece a "percezioni" e "narrazioni", spesso esterne, tramandate e mai verificate.

La seconda criticità riguarda la conformazione che hanno assunto, in molti casi, i processi di sviluppo economico. Il turismo — soprattutto quando orientato prevalentemente alla crescita quantitativa — tende a trasformare il territorio in scena di consumo: un fondale estetico su cui far vivere esperienze individuali, spesso scollegate dal tessuto sociale locale. Ma lo stesso paradigma può riguardare anche altri comparti: dalla valorizzazione del patrimonio culturale alla gestione dei beni ambientali, fino alle nuove economie dei servizi. Quando prevale una logica estrattiva, il valore si concentra in filiere che spesso sfuggono al controllo delle comunità locali, mentre il territorio diventa supporto passivo, più “risorsa” che soggetto.

Accanto a ciò, emerge una terza criticità: la svalutazione simbolica delle economie radicate nel territorio. Agricoltura, pesca, allevamento, artigianato, piccola manifattura, cooperazione — saperi che hanno costituito per secoli l’ossatura sociale ed economica delle comunità mediterranee — vengono talvolta percepiti come residui del passato, tollerati ma considerati marginali rispetto a traiettorie di sviluppo ritenute più moderne. Questo produce conseguenze profonde: si indebolisce la continuità dei saperi, si erodono le filiere locali, si scoraggia l’innovazione dall’interno, si mina l’orgoglio professionale e identitario dei lavoratori. Attività che potrebbero essere piattaforme di co-creazione di valore sostenibile rischiano così di essere ridotte a elementi folklorici o, peggio, a ostacoli allo sviluppo.

La quarta criticità riguarda la governance. Molte istituzioni mediterranee — pur animate da intenzioni positive — faticano a costruire spazi reali di collaborazione tra attori diversi. I processi partecipativi restano episodici, frammentari, talvolta formali più che sostanziali. La cooperazione è spesso evocata, ma raramente si traduce in piattaforme stabili di confronto e decisione condivisa. Si crea così una distanza fra la complessità dei problemi e la capacità effettiva dei sistemi istituzionali di affrontarli.

Infine, queste dinamiche producono una frattura più profonda: la difficoltà di mantenere una relazione viva tra passato, presente e futuro. La memoria rischia di diventare repertorio simbolico da consumare, più che risorsa capace di orientare le scelte; il futuro appare incerto e fragile; il presente tende a dilatarsi, dominando tutto. Quando il tempo condiviso si incrina, la comunità fatica a trasmettere significati, ad apprendere dalle proprie esperienze, a generare continuità tra generazioni. Si perde spessore, e con esso la capacità di immaginare insieme il domani.

Queste derive — retorica identitaria senza partecipazione, economie estrattive, svalutazione delle pratiche produttive radicate, governance debole e crisi del tempo condiviso — finiscono per alimentarsi reciprocamente. Ed è qui che ritorna, in tutta la sua forza evocativa, l’immagine della “pentola bucata”: anche quando il territorio riesce a generare ricchezza economica o visibilità simbolica, una parte consistente di questo valore non si sedimenta nella comunità, ma si disperde. Accade perché manca il radicamento in significati condivisi, in filiere relazionali vitali, in istituzioni percepite come proprie, in orizzonti di futuro costruiti insieme.

In altre parole: il valore non si accumula quando non si riconosce — e, quando non si riconosce, non si tramanda.

La trasmissione del valore, infatti, è possibile solo quando esiste riconoscimento reciproco: ciò che una comunità sente come proprio è anche ciò che si impegna a custodire e a consegnare al futuro. Ed è precisamente questo deficit di riconoscimento reciproco — economico, sociale, identitario e temporale — che rende urgente ripensare i territori mediterranei come luoghi di co-creazione di senso, prima ancora che come spazi di produzione di beni e servizi.


8. Verso un modello operativo: il Mediterranean Sensemaking Model

Se accettiamo l’idea che i territori funzionino come sistemi di costruzione condivisa del significato, allora il compito del management — pubblico e privato — non può limitarsi alla pianificazione tecnico-amministrativa o alla sola promozione del territorio. Deve piuttosto consistere nel progettare e facilitare processi di co-creazione di senso e di valore, capaci di coinvolgere attori diversi e di far emergere, nel tempo, una visione condivisa di futuro, sia in ambito locale che mediterraneo, europeo e continentale.

Vorrei sintetizzare questo approccio, almeno per quel che riguarda la parte del mondo di cui trattiamo, in quello che si potrebbe chiamare Mediterranean Sensemaking Model: non una ricetta, ma una cornice di lavoro che rispetta la complessità dei contesti mediterranei e, al tempo stesso, consente di tradurre i principi discussi finora in pratiche operative. Ecco qui di seguito le fasi che ho immaginato per applicare il modello.


Fase 1 — Ascolto interpretativo

Il punto di partenza non è l’analisi tecnica, ma l’ascolto profondo delle comunità. Ogni territorio è attraversato da narrazioni differenti: memorie del passato, identità percepite, conflitti latenti, paure e aspirazioni. Spesso queste narrazioni non coincidono — anzi, possono essere in tensione tra loro.

Un processo di ascolto interpretativo significa riconoscere e rispettare la pluralità delle voci, senza ridurla a un’unica versione ufficiale. Significa ascoltare agricoltori e imprenditori, operatori culturali e giovani, istituzioni e cittadini “qualsiasi”, anziani portatori di memoria e nuovi arrivati portatori di sguardi diversi. In questa fase, il management assume un ruolo “maieutico”: non decide i significati, ma aiuta a farli emergere.


Fase 2 — Co-narrazione critica

Una volta raccolte le voci, occorre trasformarle in un racconto ragionato della comunità. Non un mito consolatorio, non una brochure promozionale, ma una narrazione che tenga insieme luci e ombre, risorse e fragilità. La storia del territorio diventa così materia viva: discussa, condivisa, rielaborata.

Questo passaggio è decisivo per evitare il rischio del “folklore autoreferenziale”, cioè di quelle narrazioni patinate che rassicurano ma non trasformano. La co-narrazione critica permette invece di riconoscere le diversità, le discontinuità, gli errori, i momenti di crisi (si pensi per esempio a come in questo modo, in molte parti della Sardegna, la visione de "sos istranzos" possa essere inclusa coerentemente nella narrazione territoriale, mentre spesso viene rifiutata perchè ritenuta, a torto, estranea). Ed è proprio attraverso questa onestà che una comunità acquisisce autostima autentica, non retorica e, di conseguenza, crea le condizioni per generare visione condivisa e modelli di convivenza capaci di coniugare diversità di interessi e culture.


Fase 3 — Definizione condivisa di valore

Solo a questo punto diventa possibile porsi una domanda apparentemente semplice, ma in realtà cruciale: che cosa consideriamo “valore” per questo territorio?

Qui si apre uno spazio di confronto che non può limitarsi agli indicatori economici tradizionali. Il PIL, l’occupazione, gli investimenti sono misure importanti, ma non esauriscono la ricchezza di un ecosistema sociale.

La definizione condivisa di valore include dimensioni come, per esempio:

  • benessere relazionale, cioè qualità delle relazioni tra persone e istituzioni;

  • coesione comunitaria;

  • dignità del lavoro;

  • cura del paesaggio e dei beni comuni;

  • possibilità di futuro per i giovani;

  • riconoscimento identitario.

Stabilire insieme quali dimensioni contino davvero significa orientare le scelte collettive in modo coerente.


Fase 4 — Progettazione di piattaforme collaborative

A questo punto entra in gioco il management in senso stretto. Se il valore è co-creato, allora occorrono luoghi e strumenti che rendano possibile l’incontro tra gli attori. Queste piattaforme possono assumere forme diverse: tavoli di co-progettazione, living labs territoriali, reti di imprese, partenariati pubblico-privato, comunità di pratica, percorsi partecipativi strutturati.

L’obiettivo non è semplicemente “coinvolgere” la gente, ma abilitare processi reali di cooperazione: condivisione di conoscenze, costruzione di fiducia, sperimentazione congiunta di soluzioni, apprendimento collettivo. Da qui discendono scelte concrete in termini di governance, regole del gioco, sistemi di incentivi, forme di coordinamento.


Fase 5 — Istituzionalizzazione vitale

Il rischio, in questi processi, è che tutto resti episodico: un progetto, un finanziamento, una stagione favorevole — e poi il nulla. Per questo la fase conclusiva riguarda la istituzionalizzazione vitale: trasformare pratiche sperimentali in meccanismi stabili e adattivi.

“Istituzionalizzare” non significa irrigidire, ma stabilizzare senza chiudere. Vuol dire creare regole, strumenti, routine organizzative che consentano al territorio di continuare a produrre senso e valore nel tempo, adattandosi ai cambiamenti. Qui l’approccio sistemico vitale offre una bussola preziosa: un sistema è vitale quando sa rinnovare continuamente la propria coerenza interna, senza smarrire identità e finalità.

In questo senso, tutto ciò non è estetica né storytelling strategico. È management nel senso più alto e responsabile del termine: governo dei processi sociali attraverso cui una comunità costruisce sé stessa.

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Questo modello non si propone di sostituire gli strumenti tradizionali di pianificazione e gestione, ma di integrarli. Sposta semplicemente il baricentro: dal ‘che cosa fare’ al ‘come produrre senso insieme’, riconoscendo che senza significati condivisi anche le strategie meglio disegnate rischiano di rimanere fragili o inapplicate


9. Conclusione: tornare al Mediterraneo non è nostalgia

Parlare oggi di Mediterraneo come matrice culturale non significa indulgere in un passato idealizzato. Significa, al contrario, riconoscere che le società vivono di significati condivisi e che questi significati non si producono da soli, ma attraverso relazioni, istituzioni, pratiche e scelte consapevoli.

Il Mediterraneo ci ricorda che:

  • il valore nasce nella relazione e non nella pura transazione;

  • le istituzioni sono architetture di senso, non solo apparati amministrativi;

  • lo sviluppo non è un dato tecnico, ma un processo narrativo-organizzativo che coinvolge identità, memorie, visioni di futuro.

In questo quadro, la Sardegna — con la sua densità di storia, simboli e stratificazioni culturali — può diventare un laboratorio di sperimentazione civile e istituzionale. Non per rivendicare superiorità o eccezionalità, ma per contribuire in modo consapevole al progetto europeo e al ripensamento dei modelli di convivenza.

Parafrasando Weick, potremmo dire che se una comunità non riesce a dare senso, insieme, a ciò che vive, le diventa impossibile agire insieme. E senza azione condivisa, nessuna forma di valore può davvero emergere: né economico, né sociale, né umano.

In questo senso, la prospettiva qui proposta si pone in ideale continuità con la riflessione di Silvano Tagliagambe: se il Mediterraneo è una matrice culturale generativa di senso, il compito del management e delle istituzioni è trasformare quel senso in pratiche di convivenza e sviluppo condiviso.


📚 Riferimenti essenziali

  • Braudel, F. (1972–1973). The Mediterranean and the Mediterranean world in the age of Philip II (S. Reynolds, Trans., 2 vols.). New York: Harper & Row.

  • Gioia, D. A., & Chittipeddi, K. (1991). Sensemaking and sensegiving in strategic change initiation. Strategic Management Journal, 12(6), 433–448. https://doi.org/10.1002/smj.4250120604.

  • Golinelli, G. M. (2010). Viable systems approach (VSA): Governing business dynamics. Padova: Cedam.

  • Horden, P., & Purcell, N. (2000). The corrupting sea: A study of Mediterranean history. Oxford: Blackwell.

  • Lotman, Y. M. (1990). Universe of the mind: A semiotic theory of culture (A. Shukman, Trans.). London: I. B. Tauris.

  • Prahalad, C. K., & Ramaswamy, V. (2004). The future of competition: Co-creating unique value with customers. Boston, MA: Harvard Business School Press.

  • Ricoeur, P. (1984). Time and narrative (Vol. 1, K. McLaughlin & D. Pellauer, Trans.). Chicago: University of Chicago Press (Opera originale: Temps et récit. University of Chicago Press.

  • Vargo, S. L., & Lusch, R. F. (2004). Evolving to a new dominant logic for marketing. Journal of Marketing, 68(1), 1–17. https://doi.org/10.1509/jmkg.68.1.1.24036

  • Vargo, S. L., & Lusch, R. F. (2016). Institutions and axioms: An extension and update of service-dominant logic. Journal of the Academy of Marketing Science, 44(1), 5–23. https://doi.org/10.1007/s11747-015-0456-3

  • Weick, K. E. (1995). Sensemaking in organizations. Thousand Oaks, CA: Sage..

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