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Oltre gli Stati nazionali ottocenteschi.

Per un federalismo sistemico e per il riconoscimento delle nazioni europee senza Stato.


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1. Perché oggi parlare di federalismo è necessario

Il federalismo, nella sua accezione più alta, nasce come risposta alla crisi del modello dello Stato nazionale moderno. Kant, già nel 1795, nella Zum ewigen Frieden, sosteneva che la pace non potesse essere garantita dalla semplice coesistenza degli Stati ma richiedesse una “federazione di popoli liberi” capace di limitare la sovranità assoluta degli Stati (Kant, 1795).

Negli Stati Uniti, Hamilton, Madison e Jay, nei Federalist Papers (1787–1788), affermavano che solo un’unione più ampia avrebbe permesso alle ex colonie di evitare la guerra tra loro e competere nel mondo moderno.

Più tardi, Pierre-Joseph Proudhon immaginava una Federazione europea come superamento della logica centralista, “perché solo le federazioni impediscono alle parti di diventare dispotiche” (Du principe fédératif, 1863).

Nel Novecento, Mario Albertini — per anni presidente del Movimento Federalista Europeo — sosteneva la necessità di superare la sovranità statale tramite una struttura federale articolata su più livelli (Albertini, 1963).

 

2. Federalismo non significa secessione

La distinzione tra federalismo e secessionismo è spesso ignorata, ma è fondamentale. Come ricorda Daniel Elazar, uno dei massimi studiosi del federalismo: “Il federalismo unisce ciò che è separato; la secessione separa ciò che è unito” (Elazar, Exploring Federalism, 1987).

La secessione ricostruisce frontiere e sovranità assolute. Il federalismo, al contrario:

  • limita la sovranità,

  • la distribuisce tra livelli diversi,

  • coordina, non divide,

  • costruisce ordini politici più grandi senza cancellare le identità locali.

Per questo Hamilton definiva la secessione “una dissoluzione dell’ordine politico”, incompatibile con il progetto federale (Federalist No. 15) ma anche con una prospettiva di sviluppo socio-economico delle popolazioni come mostra l’uscita del Regno Unito dall’UE, la cui maggior parte degli indicatori di sviluppo mostrano un peggioramento e in tanti, in quel contesto, oggi ammettono la fallacia di quella decisione.

 

3. Il federalismo contrattuale di Gianfranco Miglio: perché non può funzionare nell’Europa contemporanea

Il pensiero di Gianfranco Miglio è stato a lungo considerato, da una parte della pubblicistica italiana, come la forma più “realistica” e radicale di federalismo. La sua idea di fondo è nota: la sovranità non è divisibile, dunque un vero federalismo può nascere solo da un contratto tra soggetti pienamente sovrani, liberi di aderire o ritirarsi. Lo afferma lui stesso con estrema chiarezza: “La sovranità non può essere condivisa: o appartiene a un soggetto o a un altro.” (Miglio, 1992).

È proprio questo nucleo concettuale — considerato dai suoi sostenitori il punto di forza del suo pensiero — a costituire invece il motivo per cui il modello migliano non può funzionare in un sistema politico complesso come quello europeo e, di fatto, non può neppure essere definito “federalismo” nel senso moderno del termine.

 

3.1. Il contratto non genera una federazione, ma una confederazione instabile

L’idea che più attori sovrani stipulino un contratto per creare un’entità politica comune colloca Miglio all’interno della tradizione confederale, non di quella federale. Le confederazioni storiche — dalla prima unione americana del 1781–1787 alla Confederazione germanica dell’Ottocento — hanno tutte sofferto dello stesso problema strutturale: un sistema non può reggere se ogni parte conserva la facoltà di annullare o reinterpretare l’accordo fondativo.

Lo spiegava già Hamilton nel 1787: “Un’unione basata su un contratto revocabile è un’unione solo di nome” (Federalist No. 15). E la teoria federalista contemporanea (Elazar, 1987; Watts, 1999) è unanime nel sottolineare che la stabilità politica richiede un’autorità federale non dipendente dal consenso revocabile delle parti. Non può esserci governo comune se i membri possono tornare indietro a piacimento.

Il modello contrattuale di Miglio produce invece:

  • poteri di veto costanti,

  • possibilità di uscita unilaterale,

  • frammentazione della sovranità,

  • impossibilità di una politica comune stabile.

Non è un caso se tutte le confederazioni che hanno operato secondo questo schema sono collassate o si sono trasformate in Stati federali proprio per superare la logica del contratto. Peraltro, questo modello opera oggi dentro l'Unione europea, con evidenti inefficienze su ambiti che invece richiederebbero coesione. E d'altro canto non è un caso che siano stati imperialisti come USA e Russia ad operare per la distruzione dell'imperfetta Unione che oggi 27 paesi si sono dati. E non è un caso che stati ambigui come Cechia e Ungheria impediscano all'Unione europea di parlare con una voce sola nelle questioni internazionali. E non è un caso che anche in Italia ci siano forze politiche sovraniste che ogni giorno operano per la demolizione della costruzione comunitaria.

 

3.2. Una “federazione contrattuale” non può gestire le funzioni fondamentali di uno Stato moderno

Miglio immagina che ogni macroregione stipuli contratti specifici per delegare alcune funzioni a un livello superiore. Ma un simile sistema è tecnicamente incapace di sostenere:

  • una politica estera unitaria,

  • una difesa comune,

  • un bilancio federale significativo,

  • una moneta condivisa,

  • la tutela uniforme dei diritti fondamentali,

  • una politica industriale o energetica coordinata.

Ogni contratto, per definizione, può essere revocato o disatteso; dunque nessuna funzione strategica potrebbe essere esercitata in modo stabile. È lo stesso motivo per cui l’Unione europea — che opera ancora in larga parte in modalità confederale — soffre proprio nei settori in cui prevale l’unanimità o la contrattazione permanente.

Un’Europa costruita secondo Miglio è una confederazione debole, continuamente negoziata, priva di identità politica comune e incapace di agire in un mondo dominato da grandi potenze continentali. Proprio quello che stiamo sperimentando in questi ultimi anni.

 

3.3. Il federalismo non nasce dal contratto, ma dalla trasformazione della sovranità

La critica più radicale proviene dalla teoria federalista classica, da Kant ai Federalist Papers, fino ad Albertini. Una federazione non è la somma di parti sovrane che contrattano tra loro: è la trasformazione della sovranità, che viene distribuita su più livelli secondo competenze funzionali, non secondo obblighi revocabili. Albertini lo esprime in modo netto: “Il federalismo nasce dalla rinuncia dei soggetti statuali a una porzione della loro sovranità, non dalla contrattazione perpetua del suo esercizio.” (Albertini, 1963)

Il modello migliano, invece, presuppone che la sovranità resti interamente nelle mani delle parti, che decidono se, quando e quanto delegare. Questo impedisce la nascita di un vero “demos federale”, cioè di una cittadinanza politica condivisa e di un ordinamento giuridico superiore capace di vincolare stabilmente tutti, cosa che sarebbe estremamente utile per esempio per impedire guerre tra popoli.

 

3.4. Perché il federalismo di Miglio è incompatibile con la Federazione dei Popoli Europei

La prospettiva di un’Europa federale che riconosce i popoli, le lingue e le identità storiche come soggetti politici primari richiede:

  • un Parlamento federale dotato di poteri reali,

  • una Corte federale che garantisca i diritti dei cittadini,

  • un governo europeo responsabile,

  • una sovranità distribuita stabilmente,

  • una rappresentanza diretta delle comunità territoriali,

  • l’impossibilità di uscite unilaterali a seconda delle convenienze (nonostante la Brexit abbia messo in evidenza che alla fine ciò è stato possibile, ancorchè la decisione sia stata, col senno di poi, infelice)

Tutto ciò è incompatibile con la concezione di Miglio, perché:

  • un contratto può essere sciolto, una federazione no;

  • un contratto produce veti, una federazione li supera;

  • un contratto tutela gli interessi delle parti, non i diritti dei cittadini;

  • un contratto non può generare un livello politico superiore stabile.

Il “federalismo contrattuale” è, paradossalmente, l’opposto del federalismo sistemico: non produce integrazione, ma segmentazione; non costruisce un ordine politico superiore, ma lo tiene in ostaggio delle parti.

 

3.5. Miglio come pensatore confederale, non federalista

Per questi motivi, Miglio può essere considerato:

  • un importante teorico del decentramento,

  • un critico acuto dello Stato nazionale ottocentesco, come del resto lo sono i federalisti europei,

  • ma non un federalista in senso moderno.

Il suo progetto politico, centrato su macroregioni sovrane legate da contratti revocabili, non risponde alle esigenze di stabilità, di distribuzione funzionale della sovranità e di cittadinanza plurilivello tipiche delle federazioni mature.

In sintesi: il federalismo contrattuale, lungi dall’essere la forma più avanzata di federalismo, è un ritorno alla confederazione ottocentesca, con la sua fragilità strutturale, i veti, le crisi permanenti e l’impossibilità di governare un continente.

 

4. L’approccio sistemico come fondamento del federalismo contemporaneo

Le scienze dei sistemi offrono oggi una chiave interpretativa più avanzata del federalismo.Secondo l’approccio sistemico i sistemi complessi sono costituiti da:

  • parti autonome,

  • fortemente interdipendenti,

  • con identità proprie,

  • inserite in un tutto che ne coordina le funzioni.

Applicato al federalismo:

  • il livello federale coordina ciò che richiede scala (diritti, difesa, valuta, ambiente, politica estera);

  • il livello territoriale gestisce ciò che riguarda identità, cultura, lingua, educazione, sviluppo locale;

  • il livello statale nazionale perde il ruolo centrale ed esclusivo.

Come sosteneva Albertini, ripreso e sviluppato nella letteratura sistemica italiana, lo Stato nazionale deve svuotarsi di potere verso l’alto e verso il basso. Questa è la logica sistemica: portare ogni competenza al livello in cui genera valore.

 

5. La Sardegna come nazione

Il concetto di nazione è di tipo antropologico ed è fondamentale. Giovanni Battista Tuveri — uno dei padri del pensiero politico sardo ottocentesco — difendeva l’idea che la Sardegna fosse una comunità distinta, con una lingua e una cultura proprie, inserita tuttavia in un sistema politico più ampio.

Antoni Simon Mossa, nel Novecento, interpretò la Sardegna come una nazione mediterranea, con una sua personalità storica, culturale e simbolica.

Peraltro, come ricostruisce Francesco Casula in una sua ampia disamina sulla nazione sarda lungo i secoli, il termine non è un’invenzione recente ma attraversa la storia politica e documentaria dell’isola fin dal periodo giudicale. 

La storiografia contemporanea conferma che:

  • la Sardegna ha una continuità culturale millenaria;

  • ha una lingua distinta;

  • ha subito processi di colonizzazione interna e snazionalizzazione;

  • ha sviluppato forme di resistenza culturale e comunitaria.

Da un punto di vista sistemico, tutto questo significa una cosa sola: la Sardegna è una parte con identità propria, non una variabile amministrativa dello Stato italiano, come accade attualmente.

 

6. La colonizzazione interna come problema di sistema

Il concetto di colonizzazione interna, elaborato nella sociologia e geografia italiana da autori come Dematteis e Cassano, e applicato alla Sardegna da Salvatore Mannuzzu e Francesco Cesare Casula, descrive bene la condizione storica sarda:

  • dipendenza economica,

  • marginalizzazione infrastrutturale,

  • centralizzazione amministrativa,

  • delegittimazione linguistica e culturale.

Il federalismo sistemico offre una soluzione moderna a questi problemi: non separare la parte dal tutto, ma trasformare il sistema in modo che la parte abbia piena titolarità sulle funzioni che riguardano la sua identità e il suo sviluppo. Ed è esattamente questo il passaggio che consente di innestare la questione sarda dentro il quadro più generale della Federazione dei Popoli Europei.

 

7. La Federazione dei Popoli Europei: oltre gli Stati-nazione

Gli Stati-nazione ottocenteschi non sono eterni. Sono costruzioni storiche nate per ragioni contingenti — guerre, dinastie, omogeneizzazione culturale — e oggi non rispondono più alla complessità europea. Una vera federazione europea non può essere una “federazione degli Stati”, ma una Federazione dei Popoli Europei in cui possano trovare posto con pari dignità: la Sardegna, la Catalogna, la Scozia, la Galizia, la Bretagna, le Fiandre, l’Occitania, la Baviera, e ciò che resterà degli Stati attuali (Italia, Francia, Spagna, UK). In questo modello:

  • le nazioni antropologiche esercitano le competenze culturali, linguistiche, educative, territoriali;

  • l’Europa federale esercita i poteri strategici;

  • gli Stati nazionali si trasformano in livelli intermedi.

È, letteralmente, la costruzione sistemica della società europea. Immaginare una Federazione dei Popoli Europei significa riconoscere che le entità politiche fondamentali non saranno più gli Stati nazionali ottocenteschi, ma le nazioni storiche e culturali che costituiscono l’Europa reale: Sardegna, Catalogna, Scozia, Fiandre, Baviera, Occitania, Galizia, e molte altre.

Affinché ciò avvenga, è necessario ripensare il concetto di “Stato”:

  1. Lo Stato come entità sovrana armata non è più il modello di riferimento.

    Nella federazione europea, gli Stati membri — siano essi Italia, Scozia o Sardegna —

    non avranno eserciti propri, né politica estera autonoma, né moneta propria.

    Questo già avviene nei grandi Stati federali (USA, Canada, Germania, Svizzera).

  2. Lo Stato come livello costituzionale dotato di piene competenze interne resta invece fondamentale: cultura, lingua, istruzione, sanità, sviluppo territoriale, amministrazione della giustizia locale.

  3. La rappresentanza politica cambia radicalmente.

    Il Senato europeo (oggi Consiglio dell’UE) dovrebbe diventare una Camera dei Popoli e dei Territori, non una camera degli Stati ottocenteschi. In questo scenario, la Sardegna avrebbe un suo seggio come nazione popolare, non come “regione italiana”.

  4. Gli Stati nazionali attuali diventano livelli intermedi.

    Non scompaiono necessariamente, ma perdono la titolarità esclusiva della rappresentanza internazionale. Così come oggi la Baviera non rappresenta la Germania all’ONU, ma ha potere legislativo interno in una serie di materie che corrispondono alla sua identità storica.

  5. Nuove “statualità leggere” per le nazioni europee senza Stato.

    La Sardegna, come la Catalogna o la Scozia, può assumere una forma di statualità costituzionale interna, analoga a quella dei Länder tedeschi o dei cantoni svizzeri, con riconoscimento europeo diretto, senza cadere nel paradigma dello Stato sovrano tradizionale.

In questo senso, non è irrealistico pensare che nel futuro Parlamento europeo siedano:

  • “Delegati della Repubblica Sarda”,

  • “Delegati della Scozia”,

  • “Delegati della Catalogna”,

  • “Delegati della Baviera”,

  • accanto ai delegati delle attuali repubbliche (Italia, Francia, Germania…), trasformate in Stati federati di secondo livello.

Le entità come Malta, Estonia, Slovenia rimarranno Stati-membri della federazione, ma non godranno di maggior “peso identitario” rispetto alle nazioni storiche che oggi non hanno un’espressione statuale.

Ribadisco che quando uso il termine ‘Stato’ riferito alle attuali nazioni europee senza Stato, intendo una statualità costituzionale interna, non un soggetto sovrano del diritto internazionale dotato di esercito, moneta o politica estera autonoma. Questa non è una frattura, ma una evoluzione costituzionale europea. Ed è perfettamente coerente con la logica sistemica:

  • le funzioni globali al livello federale,

  • le identità al livello nazionale (antropologico),

  • la gestione amministrativa e territoriale ai livelli intermedi.

 

8. Il nodo fiscale come fondamento del federalismo: senza una finanza comune non esiste giustizia territoriale né sviluppo equilibrato

Ogni progetto federalista maturo deve affrontare la questione fiscale, perché è nella distribuzione delle risorse — prima ancora che delle competenze — che si misura la capacità di un sistema politico di garantire coesione, equità e sviluppo.

Il federalismo non è soltanto una ripartizione di poteri: è, soprattutto, un’architettura economica che permette alle comunità politiche di crescere in modo armonico. Le esperienze più solide confermano questa tesi. Negli Stati Uniti, il bilancio federale e la fiscalità nazionale consentono un riequilibrio costante tra Stati con livelli di sviluppo differenti. Nel sistema tedesco, il Länderfinanzausgleich assicura un flusso continuo di perequazione orizzontale e verticale, sostenendo i Länder più deboli e prevenendo la formazione di zone strutturalmente marginali. In Svizzera, la perequazione finanziaria e gli standard minimi federali garantiscono coesione pur nel massimo rispetto dell’autonomia cantonale.

In tutti questi casi ricorre un principio essenziale: non esiste federalismo senza un sistema fiscale sovraordinato capace di redistribuire le risorse e garantire l’uniformità dei diritti fondamentali.

L’Unione Europea attuale soffre esattamente della condizione opposta. Un bilancio comune pari a circa l’1% del PIL europeo, l’assenza di una fiscalità federale, la dipendenza dai contributi degli Stati e la prevalenza dell’unanimità nelle decisioni connesse al bilancio impediscono all’UE di svolgere funzioni tipiche di un sistema politico avanzato:

  • ridurre gli squilibri territoriali,

  • sostenere gli investimenti nelle regioni deboli,

  • gestire crisi sistemiche,

  • attuare politiche anticicliche,

  • finanziare beni pubblici europei,

  • armonizzare i diritti sociali e civili sul continente.

La conseguenza è la riproduzione, anno dopo anno, di un divario strutturale tra centri e periferie, che riguarda sia gli Stati-membri sia le regioni interne degli stessi: Mediterraneo, Balcani, zone interne della Francia, regioni meridionali d’Italia e, naturalmente, le isole.

In questo quadro, la Sardegna rappresenta un caso emblematico. Un territorio insulare, caratterizzato da costi strutturali aggiuntivi, da minore densità abitativa, da una rete infrastrutturale fragile e da una significativa distanza dai centri decisionali, non può esercitare alcuna forma robusta di autogoverno se non dispone:

  • di risorse adeguate,

  • di strumenti fiscali propri,

  • di compensazioni stabili per gli svantaggi permanenti,

  • di garanzie federali su servizi essenziali e mobilità.

Un’autonomia priva di una base fiscale solida si trasforma inevitabilmente in dipendenza amministrativa. È una forma apparente di autogoverno che non conferisce capacità decisionale reale, né responsabilità finanziaria effettiva.

Per questo, una Federazione dei Popoli Europei richiede un sistema fiscale multilivello fondato su alcuni pilastri:

  1. Entrate federali autonome, come carbon tax, digital tax o contributi su transazioni internazionali, che non dipendano dagli Stati.

  2. Un bilancio federale significativo (5–10% del PIL europeo), in linea con quanto indicano molti studiosi (Majone, Enderlein, Pisani-Ferry) come soglia minima per una governance continentale efficace.

  3. Meccanismi automatici di perequazione, simili ai modelli tedesco e svizzero, che riducano la discrezionalità politica e garantiscano criteri trasparenti e prevedibili.

  4. Standard minimi federali in settori come salute, istruzione, mobilità e infrastrutture, che impediscano la creazione di cittadini “di serie A e di serie B”.

  5. Autonomia fiscale reale per Stati federati e nazioni regionali, nel quadro di regole comuni che assicurino equità e sostenibilità.

Questo modello consente di superare tanto il centralismo degli Stati nazionali quanto il rischio opposto della frammentazione secessionista. Non crea micro-Stati finanziariamente deboli, ma neppure perpetua la dipendenza delle regioni periferiche dai centri dominanti. Al contrario, costruisce una responsabilità condivisa, nella quale ogni livello istituzionale partecipa alla raccolta e alla gestione delle risorse in funzione delle proprie competenze e del proprio ruolo nel sistema.

In una prospettiva di federalismo sistemico, la questione fiscale non è un dettaglio tecnico: è il dispositivo che permette alla sovranità condivisa di tradursi in sviluppo, coesione e diritti effettivi. Senza una finanza federale multilivello, il federalismo resta un ideale astratto. Con essa, diventa una piattaforma concreta per garantire opportunità a tutti i popoli e territori d’Europa, evitando che la storia si riproduca come sequenza di centri ricchi e periferie permanenti.

 

9. Conclusione: per una rivoluzione politica pacifica e moderna

Il federalismo sistemico non è un sogno. È una necessità storica. Gli Stati nazionali hanno esaurito la loro funzione. La frammentazione è un vicolo cieco. Il secessionismo fine a sé stesso è regressivo. Di converso, la centralizzazione a livelli alti è suicida.

L’unica strada è un’Europa federale che riconosca i popoli come parti autonome di un sistema più grande. E la Sardegna, nazione antropologica, può tornare a essere protagonista solo dentro questa nuova architettura. Non una periferia dello Stato italiano. Non un micro-Stato isolato. Non una colonia culturale. Ma una parte vitale della Federazione europea che verrà.

 

Bibliografia essenziale

Classici del federalismo

  • Kant, I. (1795). Zum ewigen Frieden (Per la pace perpetua).

  • Hamilton, A., Madison, J., & Jay, J. (1787–1788). The Federalist Papers.

  • Proudhon, P.-J. (1863). Du principe fédératif.

  • Spinelli, A., & Rossi, E. (1941). Manifesto di Ventotene.

Federalismo europeo

  • Albertini, M. (1960). Lo Stato nazionale.

  • Albertini, M. (1963). Federalismo, ragione, libertà.

  • Elazar, D. (1987). Exploring Federalism.

Pensiero sistemico

  • Usai, G. (1994). L’impresa tra ipotesi, miti e realtà (con S. Tagliagambe). 

  • Golinelli, G.M. (2000). L’approccio sistemico al governo dell’impresa.

Identità e storia sarda

  • Casula, F. (2021, 10 dicembre). Nazione sarda, tutto quello che i sardi devono sapere. In Gavino Guiso (blog).

  • Tuveri, G.B. (1861). Scritti politici vari, articoli e lettere sulla condizione civile e politica della Sardegna (raccolti in antologie moderne)

  • Simon Mossa, A. (raccolte postume). Scritti politologici.

  • Casula, F.C. (1994). Storia di Sardegna. Carlo Delfino Editore.

  • Lilliu, G. (1993). La costante resistenziale sarda.

 

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