Quando smettiamo di distinguere: appunti sulla crisi della razionalità pubblica
- giuseppe melis

- 4 ore fa
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C’è qualcosa che si è progressivamente incrinato nel modo in cui discutiamo delle questioni pubbliche. Non riguarda solo i contenuti, né solo il tono del dibattito. Riguarda una facoltà più profonda e silenziosa: la capacità di distinguere i concetti. E senza distinzioni, il pensiero non scompare di colpo, ma si dissolve lentamente, lasciando il posto a credenze, appartenenze, certezze assolute.
Mai come oggi si parla di tutto. Guerre, pace, sicurezza, libertà, diritti, Europa, sovranità, tecnologia, futuro. Eppure, a fronte di questa abbondanza di parole, cresce la sensazione che si capisca sempre meno. Non perché manchino informazioni – anzi, ne siamo sommersi – ma perché le parole smettono di funzionare come strumenti di chiarificazione e diventano etichette identitarie. Servono più a collocarci che a comprendere, più a segnare un confine che ad aprire un sano confronto basato sul dialogo.
Un esempio evidente, ma tutt’altro che isolato, riguarda il modo in cui nel dibattito pubblico vengono usati termini come guerra, difesa e riarmo. Concetti distinti sul piano storico, giuridico e politico vengono spesso sovrapposti, fino a diventare intercambiabili. Così, criticare il riarmo viene letto come rifiuto della difesa; parlare di difesa viene interpretato come apologia della guerra; invocare la pace viene talvolta confuso con resa, ingenuità o irresponsabilità. In questo slittamento continuo, il confronto razionale diventa impossibile, perché non si discute più di ciò che viene detto, ma di ciò che si presume l’altro sia.
Ma sarebbe riduttivo fermarsi a questo esempio. La stessa confusione concettuale attraversa molti altri ambiti del discorso pubblico. Libertà e arbitrio vengono spesso sovrapposti, come se ogni limite fosse automaticamente una negazione della libertà. Sicurezza e controllo vengono usati come sinonimi, senza interrogarsi su dove finisca la protezione e inizi la sorveglianza. Critica e tradimento tendono a coincidere, così come neutralità e complicità. In questo modo, le parole perdono spessore e diventano segnali di appartenenza.
Quando le distinzioni saltano, il dissenso smette di essere un confronto tra argomenti e diventa una questione morale. Non si risponde più alle idee, ma alle intenzioni che si attribuiscono a chi le esprime. La sfera pubblica si trasforma così in uno spazio di classificazione: non si ascolta per capire, ma per decidere se l’altro è “dei nostri” o “degli altri”. Più che cittadini che ragionano, emergono credenti che si riconoscono.
È qui che si manifesta una delle contraddizioni più interessanti del nostro tempo: la diffusione di un fideismo laico. Anche in contesti che si dichiarano razionali, scientifici o secolarizzati, il modo di aderire alle posizioni assume spesso strutture tipicamente religiose. Ci sono dogmi indiscutibili, eresie da stigmatizzare, formule rituali da ripetere, scomuniche simboliche da infliggere. Non si crede più in Dio, forse, ma si crede in qualcosa con la stessa modalità assoluta: una visione del mondo assunta come verità morale totale, non come ipotesi da discutere.
Questo fideismo non appartiene a una parte sola. Attraversa campi opposti, identità contrapposte, schieramenti che si pensano inconciliabili ma che condividono lo stesso meccanismo cognitivo. Cambiano gli oggetti della fede, non il modo di credere. E quando il credere prende il posto del pensare, la distinzione diventa superflua: ciò che conta non è capire, ma aderire.
Le conseguenze politiche di tutto questo sono profonde. Una società che non distingue più i concetti fatica a decidere. Reagisce emotivamente, si polarizza, delega. Il dibattito pubblico perde la sua funzione principale, che non è produrre consenso immediato, ma rendere comprensibili le alternative. Senza distinzioni, però, non ci sono alternative: ci sono solo fronti contrapposti, ciascuno convinto della propria superiorità morale.
Forse, allora, il problema non è stabilire chi abbia ragione su questo o quel tema, ma chiedersi se siamo ancora in grado di ragionare prima di schierarci. Se siamo ancora capaci di abitare le zone grigie, di tenere insieme tensioni, di accettare che due cose possano essere entrambe vere senza coincidere.
Recuperare la razionalità pubblica non significa tornare a un’illusoria neutralità, ma ricostruire le condizioni minime del pensiero: nominare le differenze, rispettare la complessità, sottrarsi alla semplificazione morale.
In un tempo che premia la presa di posizione immediata e penalizza il dubbio, forse il gesto più radicale non è scegliere una parte, ma rifiutare la confusione. Non per restare sopra le parti, ma per rendere di nuovo possibile la politica come spazio del confronto e non della fede. In un contesto dominato da certezze assolute, la distinzione concettuale non consola, non mobilita, non divide. Ma è l’unica cosa che permette ancora di pensare.




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