RussVietico, anti-occidentalismo e cecità morale
- giuseppe melis

- 3 giorni fa
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Perché una parte dell’Italia assolve l’imperialismo russo e sacrifica l’Ucraina in nome di una falsa coerenza

Nel dibattito pubblico italiano – e in modo particolarmente rumoroso sui social – si è consolidata una curiosa abitudine: chiunque osi criticare apertamente il regime russo, o semplicemente ne descriva i tratti autoritari e imperiali, viene rapidamente etichettato come “atlantista”. Poco importa quali siano le sue posizioni reali sulla NATO, sugli Stati Uniti o sull’assetto della sicurezza europea. L’etichetta funziona come una scomunica preventiva: serve a chiudere il discorso prima ancora di affrontarlo.
È in questo contesto che l’espressione “RussVietico”, coniata dal mio amico Renato Orrù, ha suscitato reazioni sproporzionate. Non tanto per il suo contenuto analitico – che riguarda la continuità storica di alcune strutture del potere russo – quanto per ciò che mette in crisi: una narrazione rassicurante, secondo cui l’imperialismo sarebbe un vizio esclusivamente occidentale e chi lo denuncia altrove sarebbe, per definizione, un servo di Washington.
Il problema, però, non è terminologico. È politico, culturale e – soprattutto – morale. E si manifesta con particolare chiarezza nel modo in cui una parte di questa area guarda alla Ucraina: non come a un paese aggredito, ma come a una pedina sacrificabile nel grande gioco geopolitico.
1. “RussVietico”: una provocazione che disturba perché rompe una comoda rimozione
Definire il regime russo come “RussVietico” non significa sostenere una rozza identità tra URSS e Russia contemporanea. Significa, più sobriamente, riconoscere una continuità strutturale in alcuni elementi fondamentali dell’esercizio del potere:
centralizzazione estrema e personalizzazione della leadership;
riduzione sistematica dello spazio del dissenso;
subordinazione delle libertà individuali alla “sicurezza” dello Stato;
concezione imperiale delle relazioni con i paesi confinanti.
Il punto non è la nostalgia sovietica o la Guerra Fredda rievocata in chiave ideologica. Il punto è che il regime guidato dall’orco assassino Vladimir Putin non nasce come una deviazione improvvisa dalla “normalità” democratica, ma come un adattamento post-sovietico di una cultura politica autoritaria, aggiornata ai linguaggi del nazionalismo e della potenza.
Questo dato è ampiamente documentato. Eppure, nel dibattito italiano, viene spesso rimosso o relativizzato. Perché?
2. L’anti-occidentalismo come identità, non come analisi
Una parte consistente del cosiddetto filoputinismo occidentale non nasce da una conoscenza profonda della Russia, della sua storia o della sua società. Nasce piuttosto da un anti-occidentalismo reattivo, che ha radici diverse:
la memoria delle guerre americane “umanitarie” (Iraq, Afghanistan, Libia);
l’ipocrisia percepita dell’Occidente sui diritti umani;
la crisi di credibilità delle élite politiche e mediatiche;
il risentimento verso un ordine globale vissuto come ingiusto.
Tutto questo è reale e legittimo come terreno di critica. Il problema nasce quando la critica all’Occidente si trasforma in assoluzione automatica di qualunque attore che gli si opponga. In questo schema binario, la Russia non viene valutata per ciò che fa, ma per ciò che rappresenta simbolicamente: “il nemico del mio nemico”. È una forma di pensiero che non analizza, ma sceglie un campo. E una volta scelto il campo, tutto ciò che lo contraddice diventa fastidioso.
3. L’Italia e l’eredità irrisolta della sinistra novecentesca
In Italia, questo schema è rafforzato da una memoria storica selettiva. L’Unione Sovietica è stata, per una parte della sinistra, un riferimento simbolico: antifascista, anticapitalista, alternativa all’egemonia americana. Di quella storia si ricordano alcuni aspetti e se ne rimuovono altri: i gulag, la repressione, le invasioni, la negazione sistematica delle libertà.
Questa rimozione non è mai stata davvero elaborata fino in fondo. Così, quando oggi si parla della Russia, riaffiora una sorta di riflesso condizionato: criticare Mosca equivale a “fare il gioco dell’Occidente”. Ma questo riflesso ignora un dato fondamentale: la Russia di Putin non è l’URSS, e soprattutto non è portatrice di alcun progetto emancipativo. È un capitalismo autoritario, oligarchico, nazionalista, che utilizza la retorica anti-occidentale come strumento di legittimazione interna ed esterna.
4. L’Ucraina come cartina di tornasole della coerenza morale
È qui che il discorso diventa inevitabilmente scomodo. Perché molte delle posizioni che si dichiarano “pacifiste”, “anti-imperialiste” o “critiche della NATO” mostrano tutta la loro fragilità quando si confrontano con il caso ucraino. Secondo questa visione:
l’Ucraina non dovrebbe essere aiutata a difendersi;
resistere sarebbe “provocatorio”;
fornire armi equivarrebbe a “prolungare la guerra”;
la soluzione sarebbe lasciare che la Russia imponga la sua volontà, in nome di una pace intesa come resa del più debole.
Questa posizione è spesso presentata come realismo. In realtà, è una forma di cinismo travestito da pacifismo. L’Ucraina non è un’invenzione della NATO. È uno Stato sovrano, con una storia complessa, certo, ma con il diritto – riconosciuto dal diritto internazionale – di esistere e di difendersi. Negare questo diritto significa accettare implicitamente un principio pericoloso: che le grandi potenze possano decidere del destino dei paesi più piccoli. È esattamente la logica imperiale che si dice di voler combattere.
5. Il paradosso: anti-imperialisti che giustificano un imperialismo
Qui sta il nodo centrale. Una parte del discorso pubblico italiano finisce per sostenere, magari inconsapevolmente, una tesi che può essere riassunta così: l’imperialismo è sbagliato solo quando è occidentale. Se è russo, cinese o di qualunque altro attore percepito come “alternativo”, allora diventa comprensibile, spiegabile, talvolta persino giustificabile.
Ma l’imperialismo non cambia natura a seconda della bandiera. Cambiano i discorsi che lo accompagnano, non i suoi effetti: distruzione, subordinazione, negazione dell’autonomia politica. Nel caso ucraino, questo si traduce in un messaggio brutale: la libertà degli altri è negoziabile, se serve a confermare la nostra identità ideologica.
6. L’uomo forte e la stanchezza della democrazia
C’è poi un livello più profondo, meno dichiarato ma altrettanto rilevante: la fascinazione per l’“uomo forte”. In un mondo percepito come caotico, complesso, ingovernabile, l’autoritarismo offre una narrazione semplice: ordine, decisione, chiarezza. Putin incarna questo modello. E lo incarna non solo per la destra sovranista, ma anche per una parte di una sinistra disillusa, che scambia la lentezza e il conflitto delle democrazie per impotenza.
È un errore antico. Come mostrano le analisi di Hannah Arendt ed Erich Fromm, l’autoritarismo prospera proprio quando le società sono stanche della complessità e disposte a cedere libertà in cambio di una promessa di sicurezza.
7. Sardegna: marginalità, sfiducia e proiezione simbolica
In Sardegna, queste dinamiche assumono tratti specifici. La storia di marginalizzazione, la distanza dai centri decisionali, la sfiducia verso lo Stato centrale e verso l’Unione Europea creano un terreno fertile per narrazioni antagoniste.
La Russia diventa allora un simbolo, più che un modello reale: il grande “altro” che sfida l’ordine costituito. Ma è una proiezione pericolosa, perché confonde l’opposizione all’egemonia con l’adesione a un’altra forma di dominio.
La vera alternativa, per territori periferici e marginalizzati, non è l’autoritarismo altrui. È la costruzione di istituzioni più vicine, più responsabili, più democratiche.
8. NATO, Europa e il falso dilemma
Arriviamo così all’accusa di “atlantismo” che qualcuno brandisce in modo provocatorio per suscitare in me qualche reazione scomposta. La verità è che si tratta di un’accusa infondata non solo sul piano biografico o politico, ma su quello logico. Oltre al fatto che scorrendo quanto scritto in questo blog ormai da 5 anni e nei miei scritti su riviste come Mezzogiorno d’Europa o I Temi può trovare molte conferme a questa mia affermazione.
Criticare il regime russo non implica sostenere la NATO. Anzi, per molti europeisti critici vale esattamente il contrario, tanto più per federalisti come il sottoscritto: proprio perché la dipendenza dagli Stati Uniti è un problema, è necessario costruire una difesa europea autonoma, inserita in un progetto federale.
Sciogliere la NATO domani senza una struttura europea alternativa significherebbe lasciare un vuoto pericoloso. Ma lavorare per superarla attraverso una comunità politica europea della difesa è una posizione coerente, non contraddittoria. Il vero dilemma non è tra NATO e Russia. È tra:
un’Europa politicamente adulta, capace di difendere se stessa e i propri valori;
e un’Europa condannata a oscillare tra dipendenze esterne e impotenza interna.
9. Conclusione: l’Ucraina, l’Europa, noi
Il modo in cui guardiamo all’Ucraina dice molto di noi. Dice se siamo disposti a difendere il principio che i popoli hanno diritto a scegliere il proprio destino, anche quando questo è scomodo, imperfetto, contraddittorio. O se preferiamo sacrificarlo sull’altare di una coerenza ideologica apparente.
Chiamare il regime russo per quello che è non significa essere atlantisti. Significa rifiutare l’idea che l’autoritarismo sia una scorciatoia accettabile. E riconoscere che la critica all’Occidente, per essere credibile, deve essere esigente con tutti, non indulgente con alcuni.
L’Ucraina non è una pedina. È il luogo in cui oggi si misura la tenuta di un principio fondamentale: che la forza non possa sostituire il diritto. Se rinunciamo a questo principio, non stiamo costruendo la pace. Stiamo solo preparando la prossima giustificazione.





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