Utopie necessarie Perché la Sardegna (e l’Europa) devono tornare a immaginare il proprio futuro
- giuseppe melis

- 16 nov
- Tempo di lettura: 4 min

Ci sono parole che sembrano ingenue, quasi imbarazzanti da pronunciare in pubblico. Una di queste è utopia. Eppure, come ricordava Ernst Bloch, “l’utopia concreta è la forza anticipatrice del possibile”. Non è fuga dal reale: è un modo di guardarlo con occhi che non si rassegnano.
L’ho riscoperta ieri, in occasione della mostra “20 di pace” curata dal ColLab della Scuola Civica d'Arte Contemporanea, quando Arnaldo Scarpa ha scelto proprio questa parola per sintetizzare il suo contributo artistico. E quella parola — utopia — è diventata per me la chiave per due riflessioni che mi appartengono fin dagli anni dell’università: una sulle persone e una sulle istituzioni.
1. L’utopia delle persone: azzerare la dispersione scolastica e portare i laureati al 100%
La Sardegna è un paradosso. Da un lato talenti straordinari, creatività diffusa, capacità imprenditoriali spesso nate dal nulla. Dall’altro un tasso di dispersione scolastica tra i più alti d’Italia: secondo ISTAT (2023) supera il 21%, più del doppio rispetto alla media UE (9,7%). E solo il 22% dei giovani 25–34 anni è laureato, contro il 42% europeo (Eurostat 2023). Questi numeri non sono statistiche: sono destini.
Per questo la mia prima utopia è semplice e radicale:
portare la dispersione scolastica a zero e i laureati al 100%.
Non per adorare il titolo di studio, ma per affermare un principio:
senza capitale umano, nessun territorio può avere un futuro.
La Corea del Sud, citata spesso come esempio, ha investito nell’istruzione quando era un Paese più povero dell’Italia del dopoguerra. In meno di trent’anni ha ribaltato il proprio destino. La Finlandia ha costruito un intero modello di welfare sull’idea che “la scuola è il primo servizio democratico dello Stato”. E Singapore ha trasformato un’isola di pescatori nel cuore finanziario del Sud Est asiatico puntando su formazione e ricerca.
La Sardegna può fare altrettanto. Perché l’utopia dell’istruzione è l’unica che si realizza lavorando sulle persone una per una. Senza istruzione non ci sono idee di imprese, non c’è innovazione, c’è solo lamentela e questua: trovare qualcuno che ti risolva il problema.
Sotto questo profilo le Università sono fondamentali, non certo come istituzioni di per sé ma come centri di apprendimento continuo, di incontri aperti al mondo, e di sperimentazione come i laboratori di innovazione e contaminazione.
2. L’utopia istituzionale: dalla tregua permanente alla pace perpetua
La seconda utopia parte da un libro che dovrebbe far parte del corredo di ogni cittadino europeo: Immanuel Kant, Per la pace perpetua (1795).
Kant non propone un sogno, ma un progetto istituzionale. Lo dice chiaramente:“La pace non è uno stato di cose, ma un dovere; non si ottiene per natura, ma va costruita.”
E per costruirla servono alcuni principi cardine:
a) La pace nasce dal diritto, non dalla forza
Se la guerra resta un'opzione politica, la pace non esiste: esiste solo una tregua. Lo vediamo ogni giorno: Gaza, Ucraina, il Sahel, il Mar Rosso, il Caucaso. Conflitti congelati che si riattivano al primo varco.
b) Nessuno Stato da solo può garantire il proprio destino
Serve una federazione di Stati liberi, non un impero. Una sovranità condivisa che regoli il conflitto mediante istituzioni superiori.
c) Le costituzioni repubblicane rendono più difficile dichiarare guerre
“Se il potere è dei cittadini, essi penseranno a lungo prima di iniziare una guerra”, scrive Kant. Un monito attualissimo.
d) Gli eserciti permanenti e le economie belliche alimentano instabilità
Lo stiamo vedendo: la spesa militare mondiale ha superato i 2.443 miliardi di dollari nel 2023 (SIPRI) e con i venti di guerra attuali innescati da “bulli” senza scrupoli come Trump e Putin o altri, ciò che sembrava un lontano ricordo è ormai una terribile realtà.
e) Nessuna ingerenza negli affari interni degli altri Stati
Principio calpestato regolarmente da Russia, Turchia, Iran, ma anche dalle potenze occidentali.
ONU ed Europa: due promesse incompiute
Kant anticipava ciò che oggi chiamiamo governance globale. Eppure le istituzioni attuali sono lontane da quel modello.
L’ONU
Il Consiglio di Sicurezza, con i suoi cinque membri permanenti dotati di veto, è la negazione della pace kantiana: la sicurezza del mondo dipende dalla volontà di cinque potenze armate, non dal diritto internazionale. Come scriveva Kofi Annan: “Non possiamo avere un mondo regolato da un sistema in cui la responsabilità è di tutti ma il potere è di pochi.”
L’Unione Europea
Anche l’Europa nasce per impedire nuove guerre. Eppure resta una costruzione incompleta:
· Il potere decisionale è nelle mani degli Stati, non dei cittadini.
· Il Parlamento Europeo non nomina né revoca un vero Governo europeo.
· Il Consiglio Europeo decide spesso all’unanimità, conservando i confini come bastioni politici.
· Il Comitato delle Regioni resta consultivo, quando dovrebbe essere una “terza camera” capace di rappresentare territori, comunità e sistemi locali.
Habermas lo dice da anni: “L’Europa è un gigante economico, un nano politico e un neonato militare.” E finché resta così, non potrà mai essere l’istituzione sovranazionale che Kant immaginava.
Superare il confine come dogma
Nel pensiero sistemico il confine non è solo una linea geografica: è una membrana che regola scambi, flussi, interazioni. Un confine rigido è un sistema chiuso: si impoverisce. Un confine intelligente è permeabile: si nutre.
L’idea di confine come dogma identitario — quello a cui si aggrappano Meloni, Salvini e tutte le retoriche sovraniste (e purtroppo anche di molte frange indipendentiste sarde) — è una regressione culturale. È l’illusione che chiudere impedisca di essere attraversati. È la negazione stessa della storia europea, nata da scambi, incroci e contaminazioni. Come scriveva Edgar Morin:“L’identità che si chiude su se stessa diventa follia collettiva.”
La Sardegna e il ruolo delle periferie pensanti
È qui che le mie due utopie si incontrano. Una Sardegna istruita e aperta può contribuire al progetto europeo non come periferia passiva, ma come laboratorio politico, sociale ed educativo. Perché:
· i territori marginali vedono prima dei centri le crepe dei sistemi;
· le isole sono perfette per sperimentare governance multilivello;
· chi vive periferie culturali riconosce l’importanza dei ponti più che dei confini.
La domanda non è se possiamo immaginare un futuro migliore. La domanda è: abbiamo il coraggio di immaginarlo?
In conclusione
· L’utopia dell’istruzione rende più forte una comunità.
· L’utopia della pace kantiana rende più giuste le istituzioni.
· L’utopia federale rende finalmente possibile ciò che oggi sembra impossibile.
Perché, alla fine, le utopie non sono illusioni: sono progetti che non abbiamo ancora avuto il coraggio di realizzare.



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