top of page

Va bene che, come Sardi, si sappia cosa non vogliamo ma sappiamo cosa vogliamo?

Aggiornamento: 14 lug


ree

In Sardegna, come in molte altre regioni d’Europa, si moltiplicano i convegni, le analisi e le lamentele sullo spopolamento. Eppure, mentre ci disperiamo per la chiusura delle scuole, l’invecchiamento della popolazione e la mancanza di servizi, sembriamo incapaci di riconoscere e accogliere le opportunità reali che il mondo contemporaneo ci offre.


Il fenomeno globale dei nomadi digitali, in continua crescita, è uno di questi. Si tratta di milioni di professionisti che lavorano da remoto, spesso con alte competenze e buona capacità di spesa, che cercano luoghi autentici, accoglienti e ben connessi. La Sardegna ha tutte le carte in regola: qualità della vita, paesaggio, cultura, clima, sicurezza. Eppure, il sistema-Paese, e talvolta la stessa mentalità locale, si dimostrano impermeabili anche a occasioni come queste, dove si cercano le criticità non per affrontarle, ma per demolire ogni entusiasmo, quasi fosse una colpa aver avuto un’idea. Ovviamente questo non avverrà perché chi ha queste consapevolezze va avanti a prescindere.


Ebbene, in ogni caso le difficoltà oggettive esistono perché, nonostante una normativa finalmente approvata nel 2024 per consentire l’ingresso legale in Italia di nomadi digitali extra-UE, i requisiti richiesti sono così farraginosi da scoraggiare chiunque: dimostrare redditi elevati, assicurazioni sanitarie (e ci può stare), alloggi già individuati (ma perché, se invece possono comprarseli?), titoli di studio o anni di esperienza documentata (insomma: se hai una laurea bene, altrimenti restatene a casa). A tutto questo si aggiungono procedure lente, inefficaci e spesso arbitrarie. Il risultato è che, mentre altri paesi europei (Portogallo, Spagna, Grecia, Albania) snelliscono l’ingresso e attirano capitali umani qualificati, l’Italia – e quindi anche la Sardegna – continua a erigere barriere legali e mentali.


E non finisce qui. Anche altri segmenti di visitatori potenzialmente strategici, come i giocatori di golf, sono spesso guardati con sospetto: si dice che la crescente siccità non permetta di realizzare in Sardegna campi da golf perché costosi nella fase di investimento e nella gestione, con spreco della risorsa idrica, come se si dovessero utilizzare le scorte d’acqua dedicate al bisogno civile o agricolo. Come se si trattasse di “ricchi colonizzatori” e non di viaggiatori con alta propensione alla spesa e capaci di attivare nuove stagioni di accoglienza, oltre quella estiva marino-balneare.


Sembra quasi che ciò che è diverso da noi ci dia fastidio, o peggio, paura. E non parliamo poi della transizione energetica, che ha generato, in taluni, un blocco ideologico rispetto al cambiamento delle fonti. Il rifiuto della speculazione e del consumo inutile di suolo agricolo o di paesaggi incontaminati – giusto e sacrosanto, e su cui anche io mi sono apertamente schierato – sembra essersi trasformato in un “no” assoluto alle rinnovabili, seppure in frange che non appaiono maggioritarie. E gli esempi potrebbero continuare.


La domanda che allora dobbiamo porci è: cosa vogliamo davvero?


Non facciamo figli (e non solo per motivi economici), non vogliamo accogliere chi desidera vivere con noi, rigettiamo ogni iniziativa che porti novità, e nel frattempo denunciamo lo svuotamento dei nostri paesi. Siamo in una spirale autodistruttiva in cui, invece di progettare il futuro, alimentiamo un eterno presente di lamento e rassegnazione.


Ma questa “indolenza” non è innata. È il frutto di una lunga pedagogia della dipendenza: prima sabauda, poi italiana. Ci hanno educato a chiedere, non a rivendicare; a mendicare favori, non a pretendere diritti. Lo Stato ha costruito un sistema clientelare fondato sul bisogno: io creo il problema, ti offro la soluzione, tu mi ringrazi. E così facendo si spegne ogni tensione civile, ogni slancio di autonomia, ogni progettualità collettiva.


Che l’appartenenza all’Italia rappresenti una sorta di pastoia giuridico-culturale per la Sardegna è, almeno per me, fuori discussione. Tuttavia, anche noi facciamo la nostra parte. Ecco perché torno alla domanda di prima: i Sardi sanno davvero cosa vogliono? Temo di no. E ciò che è peggio, ho la sensazione che invece di essere protagonisti di un progetto, aspettino – come da copione – che qualcun altro faccia proposte, limitandosi a dire sì o no.


Eppure, un’alternativa c’è. Basta invertire lo sguardo. Basta iniziare a chiederci: quali persone, quali competenze, quali energie potremmo attrarre, se solo lo volessimo?

Non servono numeri enormi o sbandierare "slogan" senza contenuti concreti fatti di progetti, risorse, tappe. Servono persone preparate e visionarie. Basta smettere di chiedere “aiuto” senza progettualità, iniziamo, invece, a costruire alleanze, dentro e fuori la Sardegna. Perché un popolo che sa chi è (per questo serve studiare la nostra storia), sa anche dove vuole andare. E non ha paura di camminarci insieme agli altri.


Come ho scritto ieri, non esiste un destino già scritto, di scomparsa di questo popolo. La Sardegna può ancora essere abitata da sardi ma occorre porselo come obiettivo e non aspettare di vedere come andranno le cose. Come dimostrano tante storie del passato recente, i Sardi non sono solo quelli nati in questa terra anzi, c’è chi la disprezza anche vivendo qui, svendendone cultura e risorse ogni giorno. Ma servono visione, coraggio e riforme. Serve snellire le leggi, aprire i cuori, attivare territori. E il tempo per agire è adesso.

 
 
 

Kommentare


Post: Blog2_Post

Subscribe Form

Thanks for submitting!

©2020 di Equità e Libertà. Creato con Wix.com

bottom of page