Paesi, non borghi. La Sardegna ha bisogno di una sua specifica narrazione
- giuseppe melis
- 6 giorni fa
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C’è un nodo culturale che in questi mesi riemerge con forza, soprattutto in Sardegna, ogni volta che si parla di rilancio delle aree interne, di turismo sostenibile e di nuove reti territoriali: il nodo delle parole. In particolare, una parola: borgo.
Negli ultimi anni borgo è diventato un termine di uso comune nella comunicazione pubblica e turistica. Eppure, dietro questa parola apparentemente neutra si nasconde un mondo. In molti casi, borgo è ormai una formula narrativa, una categoria estetico-emozionale utile a promuovere piccole località italiane secondo uno schema consolidato: bellezza, autenticità, lentezza, “ritorno”. Un immaginario rassicurante e seducente, che funziona soprattutto se la località in questione è facilmente raccontabile con parole-chiave riconoscibili, dentro cornici “da favola”.
Tutto questo, però, funziona molto bene per l’Italia continentale. In quei territori in cui la parola borgo ha un fondamento storico-urbanistico e un radicamento linguistico-culturale. Ma non funziona per la Sardegna, o meglio: non è neutro.
La storia diversa della Sardegna
In Sardegna, i centri abitati non nascono come borghi nel senso appenninico o padano del termine. Non derivano da appendici di città murate o da insediamenti extraurbani nati intorno a castelli o conventi. I nostri centri sono paesi, biddas. Comunità autonome, spesso agro-pastorali, con una storia insediativa e sociale diversa da quella peninsulare.
Lo hanno ricordato nelle piattaforme social diverse persone che stimo molto, intervenendo su questo tema con argomentazioni lucide e appassionate. Nella nostra isola, il termine burgu esiste, certo, ma non ha mai preso il sopravvento su bidda. E non è una questione solo linguistica: è una questione di identità, di appartenenza, di sguardo. Chiamare borgo un paese sardo è come indossare un vestito confezionato su misura per altri: non solo non calza bene, ma deforma.

Il Comitato della Rete dei borghi caratteristici e il mio ruolo
Torno su questo tema anche in questo spazio per una ragione non trascurabile e per motivi di trasparenza. Da qualche giorno è stato insediato il Comitato tecnico-scientifico della rete dei borghi della Sardegna, istituito presso l’Assessorato del turismo, artigianato e commercio della Regione, di cui sono uno dei cinque componenti. Una nomina gratuita, accettata con spirito di servizio, che ha come obiettivo quello di definire criteri e linee guida per permettere ai comuni sardi di presentare domanda per far parte della rete. Il nome “rete dei borghi” non è stato scelto da me, né dagli altri colleghi del Comitato: lo prevede un provvedimento della Regione Autonoma della Sardegna.
Capisco che la questione possa suscitare perplessità, e anche qualche polemica. L’ho visto accadere, anche tra persone che stimo. Ma il mio intento non è promuovere un linguaggio che non mi appartiene, né tantomeno aderire acriticamente a un modello di sviluppo estrattivo e omologante. Il mio impegno nel Comitato è volto a garantire che, al di là delle parole, la sostanza del progetto rispetti le specificità della nostra Nazione sarda. Che i paesi non vengano travestiti da borghi, ma che possano essere valorizzati per ciò che sono, nella loro verità, in un percorso di miglioramento continuo.
Con l’Assessore competente, pur nella piena correttezza istituzionale, ho fin da subito manifestato la differenza terminologica e concettuale e non è certo mia intenzione polemizzare con lui né sul piano personale né su quello politico. Anzi, lo ringrazio per la fiducia accordatami. Ma credo sia importante che all’interno del percorso avviato dall’Istituzione regionale, in scienza e coscienza io possa rappresentare posizioni diverse da quelle dominanti, purché costruttive. E la mia posizione è chiara: la Sardegna non ha bisogno di diventare come il resto d’Italia. Ha bisogno di essere sé stessa, pur in un processo evolutivo e, se possibile, migliorativo in termini di riduzione delle criticità e valorizzazione delle specificità positive, anche e soprattutto quando si parla di sviluppo e turismo. Non a caso, in tutte le mie lezioni e nei miei scritti parlo di “sardità come vantaggio competitivo”, non di italianità, pur facendo parte dello Stato italiano.
Turismo sì, ma non come unica strada o come leva taumaturgica
Se si chiedesse ai diversi sindaci dei 377 comuni sardi quale sia la vocazione del proprio territorio in stragrande maggioranza evidenzierebbero la vocazione “turistica”, cosa che in realtà, per molti, non è. Anzi.
Ecco perché, il turismo può essere una leva dello sviluppo ma non la leva dello stesso. Il turismo e gli afflussi di visitatori dall’esterno, altro non rappresentano che la capacità di un territorio di essere attrattivo, interessante, accogliente. Se quindi esso non costruisce la propria identità su ciò che lo contraddistingue (agricoltura, allevamento, artigianato, storia, cultura, cibo, lingua, ecc.), come può essere interessante e attrattivo? Ne scrissi anche tempo fa facendo riferimento al fatto che abbiamo una bilancia commerciale regionale fortemente deficitaria (https://giuseppemelisca.wixsite.com/website/post/si-può-consumare-senza-produrre). Il turismo non è fatto solo da strutture ricettive ma queste possono svilupparsi se c’è tutto il resto.

Ecco perché il turismo non può essere, la panacea di tutti i mali. Spesso, anzi, un eccessivo sbilanciamento verso il turismo produce effetti collaterali: precarizzazione del lavoro, spopolamento dei centri non “turistici”, perdita di identità, desertificazione dei servizi di prossimità. Addirittura, un obiettivo che secondo me devono porsi tutti i paesi è quello di attrarre persone da tutto il mondo che apprezzano il vivere in contesti salubri, lontani dal frastuono, che cercano ambienti ancora incontaminati, dove le relazioni umane di prossimità sono una componente non secondaria dello stare nel mondo. Per questo, alcuni “segmenti” interessanti su cui i nostri comuni dovrebbero investire è quello dei “nomadi digitali” e quello di chi, più in generale, può lavorare da remoto, magari per grandi imprese e organizzazioni internazionali. Il tutto stando a Ollolai, Villanova Monteleone, Laconi, Aggius, Guspini, ecc..
L’estetica del “borgo da rivista” rischia di escludere proprio quei paesi che non si prestano a una narrazione facilmente vendibile. E così, mentre alcuni centri si vestono a festa per entrare nei circuiti nazionali, altri rischiano di perdere quel poco che hanno, perché fuori standard. Fuori vetrina. Fuori mercato.
Ma i paesi non sono prodotti in senso stretto, anche se poi in quanto attrattivi, in quanto meritevoli di interesse per chi viaggia e apprezza le specificità territoriali (culturali, produttive, linguistiche, ecc.), possono diventare “prodotti” vendibili, capaci cioè di generare flussi di persone disposte a pagare per visitare o stare in queste realtà per un periodo di tempo che può variare da persona a persona. Ma questo può accadere in modo appropriato se sono spazi di vita, di relazione, di scambio. Se sono luoghi dove il fabbro (laddove esiste), il pastore, il falegname, il piccolo produttore, sono parte costitutiva di un sistema sociale integrato, non sostituibile con un’offerta turistica (magari con la vendita di souvenir made in China) e basta, anticamera di molti processi di gentrificazione come accade in alcune città d’arte. Ecco perché serve cautela, e soprattutto visione. Una visione che non scambi il turismo per sviluppo, e che non sacrifichi la realtà al mito.
Una scelta di campo (anche lessicale)
Per questo io continuo a usare il termine paesi, che secondo me si può pure affiancare al termine borgo, non già per creare confusione ma semplicemente perché bisogna distinguere il momento dell’engagement (che può essere più semplice utilizzando la parola borgo) da quello della gestione in loco del visitatore (con cui si può parlare e spiegare con la giusta precisazione la differenza lessicale e di significato). Questo perché credo che ogni parola sia una scelta di campo. E la mia è chiara: restituire dignità alle specificità della Sardegna, contrastare i modelli imposti, e costruire – con pazienza e ascolto – una via sarda allo sviluppo territoriale. Una via che parta dalle comunità, dalle storie, dai bisogni, e non solo dal desiderio di attrattività.
In questo percorso, anche dentro il Comitato, la mia voce continuerà a farsi sentire. Non per contrastare, ma per contribuire. Non per etichettare, ma per generare pensiero critico. Perché senza pensiero critico, anche le parole più belle possono diventare gusci vuoti.
Quando anche un francobollo parla (male): la lezione dei toponimi cancellati
A dimostrazione che le parole non sono mai innocue, basta osservare quanto accaduto recentemente con il ritiro di due francobolli italiani dedicati alle Dolomiti — Latemar e Catinaccio — a causa dell’assenza della toponomastica in lingua tedesca e ladina.Un caso solo in apparenza marginale, che mostra invece come anche la rappresentazione turistica più formale (un francobollo!) può diventare terreno di conflitto tra modelli culturali: da un lato, quello centralista e semplificatore, italiano; dall’altro, quello che rivendica l’identità e la complessità dei luoghi.
Se accade in Alto Adige, dove le tutele linguistiche sono codificate, quanto più dovrebbe valere in Sardegna, dove la storia, la lingua e le pratiche sociali costituiscono un patrimonio distinto e spesso non riconosciuto, neppure da tanti Sardi, purtroppo. Ecco perché chiamare “borghi” i nostri paesi non è solo una forzatura terminologica: è l’ennesimo esempio di una rappresentazione orientaleggiante, un po’ colonizzante, se me lo permettete, che cancella la specificità sotto il peso di modelli preconfezionati.
Dalla parola al prodotto, dal prodotto alla comunicazione
Un’amica e collega mi ha scritto in privato che, forse, stiamo dando troppo peso ai virtuosismi lessicali, quando in realtà — nella quotidianità della promozione turistica — serve farsi capire da chi viene da fuori, anche con parole semplici.
Ha ragione, in parte. Ma credo che semplificare non significhi necessariamente appiattire. E che l’efficacia comunicativa, per essere tale, debba poggiare su una base solida: un’identità territoriale consapevole, strutturata, non costruita ad hoc per vendere ma riconosciuta dalle comunità stesse.
Ecco perché, anche nel turismo, vale la vecchia regola del marketing: prima si lavora sul prodotto, poi sulle altre leve di marketing, compresa la comunicazione.
I nostri paesi non possono diventare attrattivi solo per come li raccontiamo; devono esserlo per come vivono, producono, accolgono. Se il fabbro, il pastore, il mastro birraio o il tessitore non esistono più — o non trovano spazio e dignità nelle politiche territoriali — nessuna “narrazione” potrà colmare il vuoto. Quante volte sarà capitato di arrivare in luoghi belli ma dove tutte le attività commerciali e di ristorazione erano chiuse? In questo caso, che sia un paese o un borgo, nella sostanza succede che abbiamo creato una aspettativa che poi disattendiamo. Ci piace questo? Quante volte anche chi mi legge ha lamentato questa criticità, soprattutto chi del “turismo” ci vive.
La comunicazione serve a trasferire valore percepito, non a fabbricare valore dal nulla. Ecco perché dobbiamo chiederci chi vogliamo essere e cosa vogliamo costruire insieme. Solo allora, ogni parola potrà tornare a essere ciò che dovrebbe: un ponte tra mondi, non un travestimento.
Riferimenti bibliografici
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Approfondimento citato nel testo:
Sardigna NO EST italia A FORAS italia dae Sardigna